Politica

terzo settore: il cnca furioso chiama alla rivolta sociale

Battagliera chiusura dell'assemblea nazionale a Spello

di Gabriella Meroni

«Il non profit italiano non uscirà dalla crisi se non si decide a riprendere in mano le proprie sorti», dice
il presidente Lucio Babolin. «A cominciare dalla rappresentanza,
finora fallimentare»
Le parole sono antiche – soggetto politico, mobilitazione, lotta sociale – ma il disagio è (relativamente) nuovo: marginalità, vuoto di rappresentanza, crisi economica, recessione culturale. Si è mossa su questi due binari l’assemblea annuale di fine settembre del Cnca – Coordinamento nazionale comunità di accoglienza, la federazione di soggetti non profit attivi nel campo dell’assistenza che tra poco si riuniranno di nuovo, a Roma, nel convegno «Gli errori del terzo settore» (16 e 17 ottobre, www.presenzesociali.org).
La comunità fondata da don Vinicio Albanesi è diventata in questo autunno il coagulo di un movimento, sotterraneo ma vivace, deciso ad esternare il proprio malessere per l’attuale situazione del non profit italiano. Una riflessione che ha fatto inevitabilmente da fil rouge anche all’assemblea del Cnca, conclusa da un intervento di Aldo Bonomi dal significativo titolo «Mille punture di spillo o rivolta?». «Rivolta», è la risposta di Lucio Babolin, 59 anni, presidente nazionale del Coordinamento. «O meglio, un riprenderci i nostri spazi di autonomia e la rappresentanza, che non vogliamo più delegare a nessuno». Il riferimento è chiaro: in questi ultimi anni, secondo l’analisi del Cnca, gli organismi di rappresentanza del terzo settore non hanno saputo far valere la differenza – culturale, ideale ma anche politica ed economica – del non profit, schiacciandosi sui modelli consueti della politica e dell’economia profit, e finendo in una posizione di «assoluta marginalità sociale, difficoltà economica, inconsistenza politica».
Insomma, un disastro da cui uscire in tre modi, per Babolin: «Primo, con la lotta sociale. Non bisogna avere paura di questa parola. Meno consociativismo, che non ha portato a niente sia con i governi “amici” di centrosinistra, sia con quello attuale, e più mobilitazione». «Secondo», continua, «facendo cultura. L’individualismo oggi imperante ha portato a una società a cui non interessa più nulla dei problemi degli emarginati, ma è soprattutto colpa nostra, perché abbiamo rinunciato a costruire una cultura solidale». «Terzo», conclude, «tornando al volontariato puro, alla gratuità contrapposta all’economia sociale che scimmiotta le logiche profit». Ma il rischio potrebbe essere sparire… «Siamo disposti a diventare più piccoli, piuttosto che essere inglobati», risponde Babolin. «E poi non è detto che in ambito locale non si possa tornare a costruire modelli praticabili. Speriamo, per esempio, che alle prossime elezioni regionali saremo in grado di far assumere a qualche coalizione ipotesi di intervento più orientate al bene comune». E qui torniamo al consociativismo, però… «Che c’entra. La politica esiste e bisogna farci i conti. L’importante è non svendere la propria identità».


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