Politica

Terzo settore, chi ha detto che vogliamo occuparci solo di amministrazione?

Intervenendo nel dibattito avviato da Giuliano Amato sul ruolo politico del Terzo settore, la Segretaria generale di Cittadinanzattiva spiega che non è più accettabile che le organizzazioni civiche debbano accontentarsi di essere palestre, luoghi di pre-politica, che allenano persone e idee consegnandole poi a chi ritiene di avere il "vero" monopolio della politica, cioè i partiti

di Anna Lisa Mandorino

Nelle scorse settimane Giuliano Amato ha lanciato un appello al mondo del cosiddetto Terzo settore affinché, forte del “monopolio dell’interesse generale che esso detiene ormai praticamente in esclusiva”, aiuti la classe politica, i partiti insomma, a ritrovare se stessa. Nel leggere l’appello, ho colto subito il bicchiere mezzo pieno.

Esso nega infatti, e lo fa da un ambiente altro rispetto a quello della cittadinanza attiva, che il perimetro delle organizzazioni civiche sia quello “amministrativo”, di cura materiale dei beni comuni o di gestione dei servizi, e le proietta nel rutilante mondo della politica, affida loro cioè un ruolo eminentemente politico, per di più con la funzione di depositario dell’interesse generale.

È una boccata d’ossigeno rispetto agli eventi degli ultimi anni, culminati nella riforma del Terzo settore: riforma che ha istituzionalizzato una denominazione di matrice tutta economicistica, visto che ci definisce residualmente rispetto a un primo e a un secondo settore (produttivi); che ci ha uniformato e regolato, piuttosto che favorirci secondo il dettato costituzionale; che ha addirittura definito l’elenco delle attività da ritenersi di interesse generale, lasciando passare l’idea che sia il tema di cui ci si occupa e non la finalità per cui lo si fa a poter definire i soggetti di interesse generale.

La Corte Costituzionale, attribuendo al Terzo settore una funzione di co-progettazione in merito alle politiche, ha un po’ corretto il tiro, ma riservandoci ancora una volta il compito della ”amministrazione condivisa”. E chi ha detto che vogliamo (solo) occuparci di amministrazione, e per di più (solo) in modo condiviso?

Tornando all’appello di Amato potrebbe scappare detto dunque “eppur si muove”. Delle due infatti l’una: o il nostro perimetro è amministrativo o – come lascia intendere Amato – il nostro perimetro è politico, ha a che fare con il governo delle cose, e anche con il conflitto e con la tensione a gestirlo nella prospettiva dell’interesse generale.

E fin qui l’appello risulta sfidante. Ma ci sono cinque ragioni per cui, nell’elaborazione e nella pratica dell’organizzazione che rappresento, mi sentirei di avanzare delle obiezioni, e hanno a che fare con l’utilizzo che andrebbe fatta di questa nostra dimensione politica, e cioè aiutare la classe politica a riformarsi.

La prima è che non convince il presupposto che l’interesse generale sia monopolio del Terzo settore: suona comodo. La Costituzione riconosce i cittadini attivi quando, singoli od organizzati, svolgono attività di interesse generale, ma l’interesse generale è una responsabilità da cui nessuno può dirsi “immune” specie in tempi complessi come sono questi: non i partiti politici, non le amministrazioni pubbliche, non le imprese private. Sono soluzioni apparentemente risolte che contengono in sé giusto il problema.

La seconda ragione è che l’interesse generale non si ha, ma si fa. È pratica, sono attività, come dice la Costituzione, e la misura di quali impatto di cambiamento esse abbiano, quanto pertengano alla tutela dei diritti, alla cura dei beni comuni, al sostegno ai soggetti più fragili, alla lotta alle disuguaglianze. E quindi nessuno può “insegnare” l’interesse generale poiché esso non è una competenza ma una ricerca, che altri non possono fare per noi. E da questo punto di vista, il terzo settore ha fatto passi da gigante nel senso della propria auto-valutazione e auto-liberazione, e altri ancora potrà farne per liberarsi di vecchie categorie di superiorità morale (e di inferiorità politica).

La terza sta nell’interrogativo: riforma o autoriforma? È giusto “eterodirigere” la riforma di un soggetto altro da sé, così come lo Stato ha preteso di fare con il terzo settore? Ed è credibile che partiti politici che per decenni hanno lavorato per il proprio arroccamento, che utilizzano tuttora come potentissima arma di difesa, debbano e possano riformarsi rispondendo a input esterni se non attivano in sé i presupposti di un cambiamento, se non fanno i conti con le proprie contraddizioni e sono capaci di rimettersi in discussione?

La quarta, empirica. Perché dovremmo assumerci una responsabilità se a questo non corrisponde un potere delle stesse dimensioni? Facciamo un esempio di questi giorni: il Pnrr riguarda il futuro del nostro Paese, doveva introdurre elementi di cambiamento profondo, di una visione radicalmente rinnovata. Questa visione rinnovata al momento non sembra esserci, al netto di tanti ottimi interventi e di altri più discutibili, e questa visione manca perché è mancata qualsiasi apertura ai cittadini, compresi quelli organizzati che, per Amato, avrebbero il monopolio dell’interesse generale, con le istituzioni chiuse a qualunque tipo di contributo inclusivo, competente, potente, rendicontabile.

E, infine, è collegata a questa l’obiezione, la quinta, per quanto mi riguarda la più forte di tutte: è accettabile che le organizzazioni civiche debbano accontentarsi di essere palestre, luoghi di pre-politica, che allenano persone e masticano cose e le danno a chi poi ha il vero monopolio della politica, cioè partiti o comunque candidati, considerati l’unico modo, di certo il più efficace, in cui, alla fine, si possa partecipare pienamente alla vita pubblica?

Nel far riferimento al nostro mondo si oscilla fra amministrativizzazione e politicizzazione in senso elettorale, come si è detto, e per fini diversi, alcuni nobili, si prova a contaminare democrazia rappresentativa, diretta e attivismo civico (tutte cose che nel dettato costituzionale sono invece, chiarissimamente, definite e soprattutto distinte).

Mai si favorisce un’alterità politica, il fatto che non abbiamo bisogno di apprendere o di insegnare come fare politica perché esistono modi diversi di fare politica. Poi la cosa utile è incontrarsi, confrontare, discutere, confliggere, ma sempre mantenendo il ruolo di contrappeso per l’interesse generale, lavorando nell’ampio perimetro della partecipazione disegnato dalla Costituzione e cercando di inverarlo ogni giorno, anche per prove ed errori.

* Segretaria generale di Cittadinanzattiva

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