Welfare

Terzo settore, ceto medio

di Flaviano Zandonai

Credo fosse la fine degli anni 90 quando a Napoli si tenne la prima manifestazione nazionale del Forum del terzo settore. Un evento con tanto di corteo e striscioni. Ricordo bene che su corso Umberto ci risalivano incontro un paio di persone con in mano una fotocopia del famoso quadro di Pellizza da Volpedo sormontata da uno slogan facile ed efficace: “terzo settore, quarto stato”.

Più che qualche anno è passata un’era geologica. Il mito originario della precarietà è però duro a morire, guardando non solo all’economia nonprofit (guardando alle retribuzioni soprattutto), ma a progettualità dal respiro sempre più corto. La crisi, infatti, non taglia solo i budget, ma accorcia drammaticamente gli orizzonti temporali, dopo i quali regna una crescente incertezza. Questo tratto costitutivo lo si legge anche nei commenti al recente disegno di riforma del terzo settore, dove ad abbondare non sono solo gli strafalcioni (ad esempio il tema del vincolo alla distribuzione degli utili), ma anche i richiami a una dimensione originaria che rischia di essere contaminata da processi di privatizzazione (ad esempio in ambito sanitario) e mercatizzazione (con il rischio del formarsi di una “confindustria del sociale”). C’è quindi una sottile, e ambigua, linea rossa tra precarietà e residualità. Una debolezza intrinseca che è all’origine di un tratto identitario del settore e rispetto alla quale – diciamocelo – un po’ ci si crogiola.

Nel frattempo però non solo il terzo settore, ma il Paese è cambiato. E gli effetti di questi cambiamenti sono sempre più visibili e sistemici. Cambia, soprattutto, la struttura della società e, con essa, i processi di mobilità sociale che la alimentano. Basta leggersi, ad esempio, gli editoriali di Luca Ricolfi che illustrano l’ascesa della “terza società” caratterizzata da elementi strutturali di precarizzazione ed esclusione che si sviluppa intorno a economie informali e discontinue. Una società che ormai pareggia per dimensioni quella dei lavoratori garantiti da contratti nella Pubblica Amministrazione e nelle grandi imprese e pure quella popolata da liberi professionisti, commercianti, artigiani, lavoratori autonomi, dipendenti privati delle piccole imprese.

In questo quadro di trasformazione è interessante guardare a cosa succede al “ceto medio”, ovvero al perno delle società moderne e contemporanee. Un’elemento portante, di solito rappresentato in forma di stabilità grazie ad attributi più o meno contigui come “maggioranza silenziosa” o “elettore mediano”. Lo potremmo pensare ben arroccato nella società dei garantiti, ma in realtà ci sono molti indizi di un mutamento della sua composizione interna e, con essa, della sua morfogenesi.

Un editoriale di qualche mese fa a firma di Giuseppe De Rita conferma il protagonismo del ceto medio, ma sotto nuove spoglie. Più imprenditoriale, con un orientamento ai consumi caratterizzato da contenimento e preferenza (dunque non solo per necessità ma anche per virtù) e, dato piuttosto clamoroso, sempre più giovane. Basti pensare che il 53% dei giovani fra i 18 e i 34 anni si colloca nel ceto medio, mentre solo il 9% si sente precario. “It’s not only what you have, but how you feel”, sintetizza un articolo più recente apparso sul New York Times che, attingendo a diverse ricerche, approfondisce le segmentazioni interne al ceto medio americano, correlando i livelli economici, sempre più differenziati, con l’altro importante aspetto della mobilità sociale: le aspirazioni delle persone.

Un quadro differenziato rispetto al quale il terzo settore non appare estraneo, anzi. Il carattere imprenditoriale, l’orientamento a nuove forme di consumo, l’impegno civico, sono tratti del nuovo ceto medio che assomigliano molto al profilo, se non di tutto, almeno di una parte rilevante del terzo settore che, vale la pensa di ricordare, è composto da persone generalmente in possesso di contratti di lavoro garantiti (assunzioni a tempo indeterminato) e con retribuzioni che si sono via via “rivalutate” anche a causa del generale ridimensionamento di altri settori “forti” dell’economia. Ad esempio i contratti del pubblico impiego ormai non rinnovati da anni.

Ma l’economia, come dice il New York Times, non basta. Servono aspirazioni di cambiamento sociale che oggi si ritrovano in quelli che Aldo Bonomi chiama mangiatori di futuro: startupper, makers, innovatori e imprenditori sociali che il sociologo valtellinese cercherà di rappresentare all’interno di Expo come “neoborghesia”, altro che precariato e marginalità.

Il rivolgimento è in atto, pur con tutte le sue incertezze. Prenderne atto significa cambiare nel profondo la rappresentazione del terzo settore e, più in generale, quella del variegato ecosistema dell’innovazione sociale e culturale anch’esso in buona parte vittima di questa stessa sindrome di marginalità. E’ una precondizione fondamentale per avviare processi che siano effettivamente in grado di ristrutturare economia e società: dalle forme d’impresa ai servizi di welfare, dalle reti commrciali alla mobilità. Nuovi contraenti per un nuovo patto sociale che non può non riconoscere nel mutualismo uno dei suoi pilastri, oltre all’innovazione innovazione tecnologica e finanziaria. Sarà questo il banco di prova per normative che siano, per davvero, riforme.

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