Società

“Terzo settore” addio? L’economista Bruni: «Sì, ma non chiamiamolo “civile”»

Sulla proposta di Stefano Zamagni al Meeting di Rimini, di rivedere la denominazione del non profit, Luigino Bruni è d'accordissimo col superamento di "terzo" mentre sull'idea di chiamarlo "Settore civile" avanza qualche dubbio: «L'essere civili in economia è una cultura, un modo di intendere l'economia stessa»

di Giampaolo Cerri

«Non chiamiamolo più Terzo settore», ha detto Stefano Zamagni al Meeting di Rimini, «meglio Settore civile» (si legge qui). Essendo il professore emerito dell’Università di Bologna un riferimento per tutti nel mondo del non profit, non si poteva declassare il suo sapido appello a boutade agostana e su VITA abbiamo preso la palla al balzo, interpellando Leonardo Becchetti, che ne ha scritto qui.

Nei prossimi giorni, interverranno anche il presidente di Federsolidarietà – Confcooperative, Stefano Granata, e Filippo Giordano, professore di Economia aziendale alla Lumsa di Roma. In questa tribuna non poteva mancare Luigino Bruni, economista anche lui alla Lumsa di Roma, e cofondatore, proprio con Zamagni, della Scuola di Economia civile di Firenze, di cui è attualemente presidente.

Primo piano di Luigino Bruni con in mano un microfono durante un intervento
Luigino Bruni

Professore, faccio l’avvocato del diavolo, ma ora che, dopo 30-40 anni, i cittadini hanno capito che cosa sia il Terzo settore, c’è bisogno di non chiamarlo più così, seppure con lo scopo nobilissimo di indicarne il valore?

Innanzitutto ci sono stati sempre più modi di chiamare questo mondo, in Italia ma anche all’Estero. Pensi a quante definizioni abbiamo adottato, da noi: qualche volta l’abbiamo chiamato non profit, qualche volta Economia sociale, qualche volta privato-sociale, qualche volta Economia civile.

Quindi?

Quindi non è che sia l’unico nome, anche a punto di vista legislativo. Perché sull’espressione “Terzo settore”, almeno da quando io sono attivo dal punto di vista accademico, e sono ormai 30 anni, ci sono sempre stati dei problemi su questa espressione. Si dice un po’ da sempre, non solo Zamagni, che è stato certamente il primo, ma anche altri studiosi: ma perché terzo? Gli altri due quali sarebbero? Il mercato? E lo Stato è un settore tecnicamente? È un po’ improprio. Allora questo nome è stato sempre considerato una di “meno peggio”…

Una definizione di compromesso.

Un modo per indicare questo qualcosa che si muove, che non è esattamente riconducibile logiche del mercato capitalistico e del settore pubblico. Quindi leggo il richiamo di Zamagni, che gli ho sentito fare più e più volte, come un modo per spingere un dibattito su qualcosa di importante: che cos’è questo qualcosa che si muove, che chiamiamo Terzo settore o con altri nomi?

Perché rilanciarlo adesso?

Perché il mondo è cambiato, non siamo più nel ‘900, dove questa denominazione è nata e dove le realtà, che si vogliono con essa descrivere, sono nate. Oggi capire il confine fra il mercato più tradizionale e una cooperativa sociale o un’associazione che fa attività economica è sempre più difficile: ci si muove, anche e molto, nel campo della cultura e questo intreccio di sociale, culturale, economico, oggi è talmente tutto fluido, talmente tutto rimescolato, che dividere il mondo in tre diventa molto, molto complesso.

Può essere dunque il momento di mandare in archivio questa categoria? Per sostituirla con cosa?

Questa categoria ha svolto la sua buona funzione in un mondo più semplice, dove c’era in qualche modo quello che si chiamava mercato, con le sue regole, poi c’era uno Stato, che regolava e ridistribuiva e, ancora, tutta questa galassia che era in mezzo e a cui talvolta abbiamo dato anche nomi impropri, come “volontariato”. Oggi è tutto molto molto più complesso. Quindi, siccome i nomi devono anche seguire la realtà delle cose, come dicevano i latini…

Me lo lasci dire, professore: Nomina sunt consequentia rereum

… ora dobbiamo cercare di tener aperto il dibattito, prima di proporre un’altra sigla che si sostituisca a quelli precedenti.

Sulla necessità di cambiare siamo d’accordo, però.

Visto che c’è un mondo che è cambiato, anche i nomi devono cambiare, perché altrimenti siamo vecchi e diventano obsolete queste targhe, queste sigle. Semmai è sul “civile” che si potrebbe discutere.

Facciamolo, professore.

Sì perché, se noi andiamo a leggere le cose che Stefano Zamagni scrive e dice da tempo, e con lui io e a altri, anche parlare di “settore civile”, richiede una riflessione: l’Economia civile o il “civile”, non sono un settore del Paese, cioè un’unica prospettiva. In fondo, anche lo slogan della Scuola d’Economia Civile di Firenze, di cui Zamagni è cofondatore e presidente onorario, è “O è civile o non è economia”. Quindi non può essere il Settore civile, il nome nuovo. Del resto anche la definizione di Economia civile è un tentativo di raccontare l’intera economia-Paese, che è fatta di piccolo, medio, grande.

Un esempio ci aiuterebbe, Bruni.

Una delle cose che noi abbiamo sempre raccontato, con Zamagni in testa, è proprio che, nella sua natura, cioè in quello che accade, una cooperativa sociale non è diversa da un’impresa familiare nella forma di “società a responsabilità limitata- srl”. Perché questa è prima di tutto un’espressione di un genius loci, di un modo di fare economia del mondo cattolico mediterraneo, che si esprime in un’impresa familiare che fa agricoltura, o che fa meccanica di precisione ma anche in una comunità che mette su un’attività agricola sotto forma di cooperativa o un asilo sotto forma di impresa sociale. Noi abbiamo raccontato, in questi 20 anni, che il “civile” non è un settore ma è una cultura, ma è un modo di intendere l’economia.

Compreso lo Stato…

Esattamente, compreso lo Stato, che chiaramente può essere anche “incivile”: pensiamo a quando regola mala o addirittura produce azzardo, armi, condoni, tassazione.

Tutte le cattive possibilità del governo della cosa pubblica. Quindi: superiamo il “terzo”, ragioniamo sul “civile”.

Sì, anche lo stesso Zamagni, al di là dell’intervento al Meeting: se si va a fondo col suo stesso pensiero, ci si rende conto che limitare l’economia civile al Terzo settore è esattamente quello che non abbiamo dovuto fare in questi 20 anni di Scuola, dicendo che per noi è Economia civile una cooperativa tradizionale, una cooperativa sociale, ma anche un’impresa srl o spa. Ma facciamo appunto un esempio, anche eclatante direi.

Prego.

Il Polo di Lionello Bonfanti di Economia di comunione di Loppiano (Firenze), al cui interno ha sede anche la Scuola della Economia Civile, è una società per azioni, una spa. Insomma, l’economia civile non sta dentro una forma giuridica.

Tra l’altro, stando all’Economia di comunione, che nasce dal movimento dei Focolari in Italia, e che si è allargato anche all’Estero, si può essere economicamente “in comunione” anche facendo profitto e distribuendo utili.

Noi abbiamo realtà aziendali che si rifanno e che si riconoscono nell’Economia civile, che sono società commerciali e che si autodefiniscono economia civile: sono medio, grandi, piccole… L’essere “civili” non è legato alla forma, alla forma sociale di attività, ma è legata a una cultura, a un modo di concepire il mercato, come reciprocità, come mutuo vantaggio eccetera.

Tanto per seppellire questo “terzo”, che cosa non andava? Perché esprimeva, in qualche modo, un giudizio di valore, perché relegava il non profit a un ruolo ancillare?

Perché, se andiamo a guardare anche come lo Stato legifera, questi settori di economia varia sono molto più di tre. Ad esempio le cooperative, che cosa sono? Un settore a se stante? No, non sono né “for profit” né “not for profit”, però sono davvero importanti per il nostro Paese. Quindi i settori sono più di tre. Andiamo oltre. Terzium non datur, è proprio il caso di dirlo. Farei attenzione a usare “civile”, ripeto. Se andiamo a leggere tutte le cose che abbiamo fatto in questi anni sull’Economia civile… Anzi, non ci dimentichiamo che il primo lavoro pubblicato su VITA: nel 2003, scrivemmo le Lezione d’Economia civile, io e Zamagni, un fascicolo che uscì in allegato all’allora settimanale. Parliamo di 21 anni fa: avete un primato storico.

Un altro argomento per festeggiare il nostro trentennale il 25 e 26 ottobre a Milano, alla Fabbrica del Vapore. Ma per tornare alla ridenominazione eventuale, il dibattito è aperto.

Sì, non voglio dare un’altra etichetta, non mi interessa in questo momento, ma il contributo di Zamagni è prezioso perché ci fa superare quel “terzo” e direi, con Zamagni, che “civile” potrebbe essere limitativo.

Lei è più “zamagnano” di Zamagni, insomma. In questo si potrebbe aggiungere che potrebbe essere limitativo incardinarci nel civile, perché questo lascerebbe fuori quel mondo “for profit” che, non senza sforzo, con la responsabilità sociale di impresa, qualche passo lo sta faccio lo sta facendo.

Esattamente. Pensiamo al mondo delle società benefit, che oggi è un mondo importante. Dove lo collochiamo? Nel Terzo settore attuale, no. Se si limita il “civile” a ciò che era il Terzo settore una volta, le società benefit non starebbero neanche nell’Economia civile. E sarebbe triste: fuori l’economia di comunione, fuori l’economia benefit, ma soprattutto non ha più senso dividere il mondo così, perché è troppo mutato il contesto nel XXI secolo.

Sulle parole del non profit, ascolta il podcast Bada a come parli, un’esclusiva per gli abbonati e le abbonate di VITA.

Nella foto di apertura, di Deka Mohamed May per LaPresse, clown volontari riuniti a Torino.


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