Welfare

Tasso di fuga: 1 per cento

Succede a Padova, isola felice della sperimentazione di pene alternative. Un dato che smonta le tesi del ministro. "Lo Stato usi la forza per reinserire"

di Federico Cella

In questi giorni di braccialetti elettronici ognuno offre la propria soluzione. Ma chi lavora quotidianamente con i carcerati, osserva, da dentro, l’evolversi del caso-giustizia e non riesce a nascondere la propria preoccupazione. «L’allontanamento di Alessandro Margara dalla carica di direttore generale degli istituti di pena è stato un segnale chiaro di come si voglia puntare all’inasprimento del regime carcerario», non ha dubbi in proposito don Sandro Spriano, cappellano del carcere di Rebibbia. «Il ministro Diliberto è venuto una volta da noi, parlando di nuovi modelli di carceri, ma quello è stato l’unico segnale di apertura che abbiamo avuto. Anzi, dopo i patti stretti dal ministro con i sindacati della Polizia penitenziaria, anche in un carcere aperto come il nostro abbiamo dovuto rinunciare – per insufficienza di organico, ci è stato detto – a parecchie attività educative, culturali, di reinserimento sociale». E così la legge Gozzini diventa sempre più a rischio, come il lavoro dei tanti volontari che hanno accesso al carcere. I recenti fatti di cronaca nera, e più ancora le chiacchiere di politici e magistrati, hanno scatenato l’allarme sicurezza tra la gente. Ma invece di acqua, sul fuoco è arrivata solo benzina. «Non conosco i piani del governo ma se si pensa di ragionare sulla giustizia solo parlando di carcerazione, allora si è deciso consapevolmente di intraprendere una strada che non porta da nessuna parte».
Si parla tanto di fughe agevolate dai permessi, concessi troppo facilmente. Ma al carcere di Padova, un’isola felice di sperimentazioni alternative, su migliaia di casi, il tasso di fuga è dell’uno per cento. «E accompagnare fuori dal carcere per la prima volta un detenuto che non esce da molti anni è un’esperienza a dir poco sconvolgente. Ti fa riflettere ancora una volta sulla reale utilità delle carceri, al di là dei casi di comprovata pericolosità sociale». A parlare è Rossella Favero, insegnante nella scuola di alfabetizzazione del carcere di Padova. «In questo periodo, quindi, stiamo a osservare. Ma i detenuti sono preoccupatissimi. I segnali che arrivano da Giancarlo Caselli sembrano contraddittori, e ora non sono più così sicura che si stia andando nella direzione giusta».
Secondo Stefano Anastasia, dell’associazione Antigone, bisogna distinguere nel mare magnum di superficialità. Da un lato si pone il lavoro di riforma iniziato dal ministro Flick e proseguito da questo governo. «Dall’altro i recenti fatti riguardo la sicurezza sociale: se vengono affrontati solo dal punto di vista giustizialista, assecondando la paura della gente e mettono a repentaglio anche una serie di conquiste giuste per i detenuti. Che, posso assicurare, non se la passano poi così bene come si dice in giro. Il lavoro va fatto sulla forza di reinserimento sociale dello Stato. Se un detenuto malato di Aids uscito dal carcere si rimette a delinquere, può darsi che lo faccia perché è cattivo dentro. Ma è più probabile che vi sia spinto da una società che prima lo ha allontanato e ora non lo fa rientrare». F. Cel.

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