Non profit

“Tassa sulla bontà” e risposte ai bisogni. Tre punti da chiarire

Alla vigilia delle festività, inaspettatamente, il non profit ha fatto notizia non per ragioni di merito sociale o per le belle storie di solidarietà, ma per una questione fiscale. Ebbene, se vogliamo proprio dare un valore economico alla solidarietà occorre avere le idee chiare sulle attività che svolgono i volontari e gli enti non profit nonché sulle modalità con cui questi trovano risorse e, da ultimo, su come vengono tassate. Ecco i punti da chiarire

di Gabriele Sepio

Anche le tasse a volte possono avere un’anima. A ricordarcelo ci ha pensato il Presidente Mattarella nel suo discorso di fine anno che non a caso ha richiamato la solidarietà e la bontà come valori di cui la nostra comunità è ricca grazie al lavoro silenzioso dei volontari e degli operatori del sociale. Un lavoro che sostituisce lo Stato laddove questo non riesce ad arrivare; si chiama “sussidiarietà” ed è uno dei pilastri della nostra carta costituzionale e su questo si fondano le tante leggi che favoriscono lo sviluppo delle organizzazioni non profit. Il discorso del Presidente arriva dopo giorni di dibattito esploso proprio alla vigilia delle festività in cui inaspettatamente il non profit ha fatto notizia non per ragioni di merito sociale o per le belle storie che la solidarietà può raccontare alla fine di un anno difficile per molti cittadini, ma per una questione fiscale. Già, i numeri e le tasse hanno fatto notizia.

Ma ciò che ha sorpreso non è tanto la decisione del Governo di eliminare e subito dopo promettere di ripristinare, la misura fiscale di favore che prevede un’Ires agevolata al 12% per gli enti non profit, ma la confusione intorno alla stessa definizione di non profit e al ruolo degli enti del terzo settore

Se vogliamo proprio dare un valore economico alla solidarietà occorre avere le idee chiare sulle attività che svolgono i volontari e gli enti non profit nonché sulle modalità con cui questi trovano risorse e, da ultimo, su come vengono tassate. Bastano poche parole per spiegare le ragioni alla base delle misure fiscali agevolative per gli enti non profit e per capire cosa succede quando vengono eliminate indiscriminatamente senza proporre soluzioni alternative. Prendiamo come esempio la misura fiscale abrogata con la legge di bilancio. L’art. 6 del D.p.r. 601 del 1973 prevede una tassazione ridotta al 12% (anziché al 24%) per le attività svolte da enti e istituti di assistenza sociale, ospedalieri, di assistenza e beneficenza, istituti di istruzione dotati di personalità giuridica. Questo significa che quando questi enti, nello svolgimento di attività di interesse generale o comunque di attività a queste collegate, producono utili, possono beneficiare una riduzione di imposta. Già da qui possiamo fare una prima distinzione che fino a qualche giorno fa credevo fosse assodata, ma evidentemente non è cosi. È chiaro che la norma favorisce gli utili e non il lucro. Gli enti del terzo settore non si mettono i soldi in tasca ma sono obbligati a reinvestire tutto in attività di interesse generale indicate dalla legge. Questo significa non profit, ovvero mancanza di lucro. E per fare ciò gli enti evidentemente, nonostante la generosità degli italiani, non vivono solo di beneficenza, come qualcuno ha paventato negli ultimi giorni, ma possono svolgere attività dietro versamento di corrispettivi che servono a finanziare la missione istituzionale da cui trae beneficio la collettività (si veda anche editoriale di Riccardo Bonacina). Tali attività commerciali possono essere svolte entro limiti precisi che non possono, comunque, mettere in discussione o contaminare gli obiettivi dell’ente.

Altro aspetto che va chiarito dunque. “Non profit” non significa necessariamente “non commerciale”. Gli enti del terzo settore possono svolgere le attività principali e secondarie in forma commerciale (queste ultime per le ONLUS, ad esempio, possono produrre entrate non superiori al 66% dei costi complessivi dell’ente) che, se mantenute entro certi limiti, sono perfettamente compatibili con la finalità di interesse generale. Insomma un conto è vendere arance per tutto l’anno e altro è farlo in occasione di ricorrenze o raccolte occasionali di fondi. Un conto è svolgere attività socio-assistenziale per il tramite di una società di capitali che permette, senza limite alcuno, di distribuire utili a favore dell’imprenditore o azionisti e altro è farlo tramite un ente del terzo settore con obbligo di reinvestire tutto nelle attività istituzionali.

Se queste sono le premesse allora le norme fiscali che regolano la tassazione della bontà, per usare le parole di Mattarella, si basano in linea generale su un semplice sillogismo. Più sale la pressione fiscale per gli enti non profit e meno risorse ci sono per svolgere le attività a beneficio della collettività. Meno attività svolte dagli enti del terzo settore equivalgono a maggiori costi per il servizio pubblico per soddisfare bisogni e sostenere chi si trova nel disagio. Le esigenze sociali non rispondono a logiche algebriche o di bilancio, e senza l’opera del terzo settore devono continuare a trovare risposte attraverso l’intervento diretto del pubblico e, in particolare, degli enti locali, le cui limitate risorse non riescono sempre a sostenere la domanda.

Le misure fiscali di vantaggio, dunque, non servono a premiare il lucro ne a distorcere le regole del mercato detassando indiscriminatamente attività commerciali, ma costituiscono una forma di finanziamento indiretto da parte dello Stato a favore di enti che non perseguono il profitto in ossequio al principio di sussidiarietà.

E arriviamo all’ultimo aspetto da chiarire. In questo scenario come si pone la riforma del terzo settore rispetto alle tasse sulla bontà e alle preoccupazioni di non premiare i “furbetti” del sociale, tanto per usare i termini più gettonati in questi giorni? La riforma ha eliminato le molteplici agevolazioni fiscali che hanno fatto del terzo settore una terra di mezzo, spesso introdotte senza un filo conduttore in grado di premiare il merito e valorizzare le esperienze virtuose. Anche il beneficio della agevolazione Ires al 12 %, balzata agli onori della cronaca con la legge di bilancio, verrà meno con la riforma (tranne che per le attività secondarie degli enti ecclesiastici) ma solo perché sostituita con altre misure di vantaggio e solo per quanti si iscriveranno al nuovo registro unico nazionale. Se è vero che i “furbetti” sono coloro che si insinuano nelle maglie del sociale per trarne un lucro non spettante, beneficiando della detassazione degli utili, allora la prima cosa da apprezzare è la creazione di un sistema con pochi regimi fiscali applicabili in funzione delle caratteristiche specifiche dell’ente. Alcune attività saranno considerate non commerciali per definizione e, dunque, non tassate, come avveniva in passato; solo per fare un esempio, si pensi alla vendita di beni di modico valore, raccolta fondi occasionale, corrispettivi specifici versati dai soci di associazioni di promozione sociale. Per le altre attività occorrerà verificare il rapporto tra entrate e uscite considerando i costi complessivamente sostenuti e le entrate aventi natura di corrispettivo, escludendo insomma le erogazioni liberali e quelle derivanti da raccolte fondi di vario genere. Quando le entrate commerciali superano i costi in misura superiore al 5% e per più di due periodi di imposta allora quelle entrate saranno tassate. In che modo? Per una organizzazione di volontariato o una associazione di promozione sociale si potrà accedere ad una sorta di flat tax, a patto che le entrate commerciali non superino i 130 mila euro. Per gli altri enti esistono dei coefficienti che misurano in via forfettaria il reddito e che sono convenienti nei limiti in cui la redditività è bassa. Quando l’ente ha molte entrate commerciali ed è organizzato in forma di impresa potrebbe risultare più conveniente il regime dell’impresa sociale. In altre parole, più controlli e più trasparenza in cambio di vantaggi fiscali che detassano gli utili reinvestiti nelle attività di interesse generale della impresa sociale.

Insomma poche regole intorno alle quali ruoterà il nuovo assetto del terzo settore. Le tasse sulla bontà saranno misurate in funzione della natura delle entrate dando la possibilità agli enti di scegliere la forma giuridica e il regime più conveniente in base a regole che permettono, al crescere dei numeri, anche di aumentare i controlli. L’incremento dell’incidenza nel Pil del terzo settore, giunta quasi al 5%, misura il valore della solidarietà nel nostro Paese. Questi numeri evidenziano quanto una corretta costruzione di modelli fiscali sia importante per lo sviluppo del sociale e del lavoro nel terzo settore a vantaggio di una intera collettività. Non esistono regole miracolistiche contro i “furbetti” ne è possibile pensare di depennare, di punto in bianco, norme fiscali agevolative di rilevanza sociale per esigenze di bilancio o perché qualcuno ha scoperto il modo per aggirare vincoli e divieti. Esiste però un sistema di regole la cui coerenza permette ogni giorno a migliaia di enti del terzo settore di programmare attività grazie alle quali si crea una ricchezza non sempre misurabile, che è quella della solidarietà e del senso di comunità.

* Componente del Consiglio Nazionale del Terzo settore e membro del Comitato di gestione di Fondazione Italia Sociale

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