Stiamo vivendo per la prima volta una crisi al quadrato: su quella scatenatasi due anni fa per la bolla dei derivati, se ne è innestata un’altra che riguarda principalmente l’Europa, e che sta mettendo in gioco il sistema di welfare dei Paesi del Vecchio continente. L’urgenza di salvare i conti pubblici sta spingendo gli Stati dell’unione ad adottare misure draconiane, che hanno un unico fil rouge: la riduzione della spesa sociale. Nel momento in cui stiamo chiudendo questo numero speciale di Vita dedicato al Rapporto sull’attività delle fondazioni (un appuntamento ormai abituale, che quest’anno abbiamo voluto arricchire di un estratto in inglese, a dimostrazione di come ormai la dimensione della filantropia non sia più soltanto nazionale), le misure di Tremonti sono delineate e non si sottraggono a questo drammatico criterio. Avremo tempo di valutarne le ricadute già da settimana prossima.
Ma la direzione complessiva è chiara e non riguarda solo l’Italia, come ha lucidamente evidenziato settimana scorsa su queste pagine Andrea Simoncini. Alla radice di queste misure prese sotto la pressione ricattatoria delle agenzie di rating e dei grandi timonieri del sistema finanziario, c’è sempre una drammatica incapacità di visione. Ci si illude che il modello di questi decenni recenti sia l’unico praticabile. E ci si rifugia nell’idea che tutte le alternative implichino scelte che, rallentando i consumi e quindi l’economia, finirebbero con il causare danni sociali ancora più drammatici: è lo scenario della “decrescita.
Ma questo modo di pensare è univoco e schematico. E crescita e decrescita sembrano stabilire un gioco di reciproche provocazioni che alla fine lasciano le cose come stanno. In realtà oggi non solo è possibile, ma è necessario iniziare a pensare lo sviluppo futuro dei nostri sistemi sociali in modo diverso, superando parametri a cui siamo rimasti sino ad oggi incatenati. Il caso che riguarda il futuro di Milano e di cui parla diffusamente Stefano Boeri nell’intervista che pubblichiamo nelle prossime pagine, da questo punto di vista è straordinariamente emblematico. La città nel 2015 dovrebbe ospitare l’Expo, prendendo il testimone da Shanghai, dove la manifestazione si sta tenendo proprio in questi mesi. L’Expo è la manifestazione simbolo di celebrazione dello sviluppo così come la società occidentale l’ha sino ad ora concepito: non è un caso che la Cina l’abbia voluto proprio per sancire la straordinaria galoppata economica che ha caratterizzato la sua storia recente. Milano invece, affidandosi a una consulta di cinque architetti internazionali e seguendo i suggerimenti carismatici di un personaggio come Carlin Petrini, ha imboccato una strada del tutto inedita. Ha scelto un tema legato al bisogno più elementare per l’uomo, la nutrizione, e si è posta il compito di raccordare la produzione di cibo con la crescita delle grandi realtà urbane. Non è una visione passatista, perché guarda all’agricoltura anche come ricerca e come innovazione. Ma è una visione di rottura, che cambia le priorità dello sviluppo. Expo 2015 non è affatto un’utopia, è una strada nuova. Certo si tratta di scegliere tra il cibo e il cemento. Voi che ne dite?
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