Economia

Summit internazionale cooperative: aumentare la narrazione per dar più forza al modello

La traccia prodotta dalle tre edizioni del Summit nella cultura del movimento cooperativo internazionale non è per niente superficiale. Ha intercettato ed espresso un desiderio diffuso di affermazione del modello cooperativo attraverso la narrazione dei suoi successi. Anche a scapito di un approfondimento delle ragioni che hanno portato al successo

di Gianluca Salvatori

Il Summit internazionale delle cooperative, che si svolge a Quebec ogni due anni, è arrivato alla terza edizione. A organizzarlo è il Mouvement Desjardins, la più grande banca di credito cooperativo canadese, in un rapporto di collaborazione con l’International Cooperative Alliance che non risulta sempre evidente.

Infatti l’impostazione che al Summit prevale è quella modellata sulle grandi cooperative, che dettano l’agenda dell’incontro. Le priorità si riassumono quindi in due linee: aumentare la competitività delle grandi imprese cooperative rispetto alle loro concorrenti “capitalistiche” e rappresentare all’esterno la forza del movimento cooperativo per rivendicare più influenza nella definizione di politiche e norme.

Questa impostazione riflette in particolare la situazione delle grandi cooperative nord-americane e dei rispettivi settori di appartenenza. In Canada e negli Stati Uniti la cooperazione è un modello d’impresa che riguarda principalmente agricoltura, salute, credito e assicurazioni. Non a caso si tratta dei quattro temi che al Summit hanno avuto più spazio. Le nuove frontiere del sociale sono invece meno rappresentate perché in quei contesti hanno preso spesso la strada di altri modelli organizzativi (ad es. la social entrepreneurship), nati fuori dalla tradizione cooperativa ed in qualche caso in esplicita contrapposizione.

Da una prospettiva europea quella del Summit è una cooperazione piuttosto tradizionale, molto orientata al business development, concentrata essenzialmente sulla crescita dimensionale e sull’acquisizione di quote sempre maggiori di mercato. Per certi versi è un modello simile a quello dell’impresa non cooperativa, da cui differisce per i valori che la ispirano più che per le modalità organizzative o di gestione. Ma questo rapporto con i valori è quasi uno sfondo, ancorato al momento fondativo, mentre nel presente prevale piuttosto l’esigenza di rendere la propria diversità un brand riconoscibile. I principi cooperativi, più che essere rielaborati per far fronte a nuove sfide sociali, sono riaffermati come parte di una narrativa per migliorare il posizionamento sul mercato e per rivendicare maggiore influenza sulla scena istituzionale.

E’ inevitabile che in incontri così affollati sia presente un elemento auto-celebrativo. Ma la sensazione, che emerge soprattutto nella scelta dei contenuti e dei relatori delle sessioni plenarie, è che il messaggio principale voglia essere quello della competizione per la crescita. Le cooperative – in quanto sono imprese che performano altrettanto bene, se non meglio, delle altre imprese – debbono puntare alla leadership di settore e contraddistinguersi come “the fastest growing business in the world.

Non sorprende quindi che la scena del Summit sia stata occupata dai powerpoint delle grandi società internazionali di consulenza più che dalle riflessioni degli studiosi del modello cooperativo. Né che tra i quasi tremila partecipanti si sia notata poco la presenza dei paesi diversi dal nord America. Non perché non ci fossero, ma perché la loro voce è rimasta sullo sfondo. Anche se certo la responsabilità non sempre va imputata agli organizzatori: nel caso dell’Europa è prevalsa una complessiva incapacità di presentarsi con un’agenda propria in grado di rispecchiare le esperienze, spesso innovative, che le diverse realtà cooperative stanno sviluppando in reazione alla crisi della società europea.

Ovviamente il Summit non è il movimento cooperativo ma solo una sua parte. Già la partecipazione ad un’assemblea generale dell’ICA restituisce un’immagine diversa dello stato della cooperazione nel mondo. Più articolata e differenziata. Meno affermativa. Con più spazio per sfumature, criticità e sperimentazioni.

Però, innegabilmente, la traccia prodotta dalle tre edizioni del Summit nella cultura del movimento cooperativo internazionale non è per niente superficiale. Ha intercettato ed espresso un desiderio diffuso di affermazione del modello cooperativo attraverso la narrazione dei suoi successi. Anche a scapito di un approfondimento delle ragioni che hanno portato al successo (ma anche, in non pochi casi, all’insuccesso). In fondo è l’immagine di un movimento cooperativo inevitabilmente figlio di questo tempo, dunque talvolta insofferente nei confronti degli eccessi di analisi e più propenso a trovare il payoff più accattivante per farsi riconoscere dal grande pubblico.

Alla realtà cooperativa italiana – e specie alla cooperazione sociale o alla nascente cooperazione di comunità – quest’approccio va naturalmente stretto. Però sarebbe un errore ignorarlo. Il tema, piuttosto, è quello di bilanciare l’eccesso di semplificazioni, e di tenere aperta la prospettiva di altri scenari che tengano conto della diversità delle situazioni e dei contesti. Vanno trovati i modi per portare la discussione sul futuro della cooperazione dalla narrativa dei successi ad un confronto aperto tra scenari, fondato su analisi documentate e dati affidabili, ma al tempo stesso accessibile e comprensibile a tutti. Accettando la sfida della comunicazione, e rendendosi più presenti nelle sedi in cui a livello internazionale si discute del modello cooperativo. Altrimenti serve a poco lamentarsi che il modello forgiato sulla grande cooperazione nordamericana stia diventando, nel mondo, il parametro di riferimento.

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