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Sulla spiaggia di Aylan con i migranti in attesa di salpare

Da qui tutti sperano di raggiungere l'isola greca di Kos, molti non ce la fanno come il piccolo bimbo siriano di tre anni morto assieme al fratellino e alla mamma. Siamo andati a Bodrum per incontrare chi è disposto a tutto pur di arrivare in Europa. Ecco quello che ci hanno detto

di Costanza Spocci

Un gruppo di ragazzi giovani si avvicina timidamente al vano del pick up dove troneggia un pentolone di zuppa fumante. A Bodrum, una città costiera nel sud della Turchia, è l’ora del tramonto e sui vetri delle macchine si riflettono gli ultimi raggi di sole nel parcheggio dietro la stazione degli autobus. Di solito il parcheggio viene utilizzato dai commercianti del vicino mercato coperto ma, puntualmente tutti i giorni alle 17.30, il posto diventa il principale punto di incontro dei rifugiati in città: afgani, pakistani, siriani, sono tutti in attesa della chiamata di un trafficante per saltare su un gommone motorizzato e approdare sull’isola greca di Kos, antistante al litorale di Bodrum.

A gruppetti arrivano altri ragazzi e signori tra i 20 e i 40 anni e mentre Egemen Ozturegen, 32 anni e abitante di Bodrum da almeno una decina, si infila i guanti e inizia a distribuire la zuppa, gli uomini iniziano a chiacchierare tra di loro, tra un sorso caldo e un morso di pane. “Abbiamo iniziato a distribuire vestiti lo scorso settembre” dice Egemen, volontario dell’associazione Bodrum Humanity Association, “all’inizio eravamo un gruppo di conoscenti, amici di amici in sostanza, che volevano darsi da fare per dare una mano alle migliaia di rifugiati che ogni giorno passavano per Bodrum”.

Nel 2015 Bodrum è stato uno dei principali punti di passaggio via mare per i rifugiati diretti in Grecia, con l’intenzione poi di proseguire lungo la rotta Balcanica e raggiungere l’Europa continentale. Secondo i dati UNHCR, 856.723 sarebbero le persone che l’anno scorso hanno lasciato le coste turche per approdare sulle isole greche del Mar Egeo e 50.668 nel solo mese di gennaio 2016. “Dopo le prime settimane di raccolta e distribuzione dei vestiti nei principali hot-spot della città”, continua Egemen, “la voce si è sparsa, grazie anche a un gruppo facebook che avevamo creato e abbiamo raggiunto una cinquantina di persone, tra residenti e stranieri”. Le donazioni sono aumentate e il gruppo, registratosi ufficialmente come associazione lo scorso novembre, ha iniziato a distribuire cibo tutti i giorni proprio nel punto in cui molti dei rifugiati che non si possono permettere un hotel usano come luogo di ristoro: un parchetto incolto e recintato, a qualche metro dal parcheggio e da una scuola elementare. E’ un’azienda locale, Palina, che prepara la cena tutti i giorni. Mentre la distribuzione di zuppa continua, alcuni ragazzi si aggirano irrequieti tra le macchine. Stanno aspettando la chiamata di un trafficante per prendere un bus e recarsi verso “il punto”, così lo definisce Ali, da cui lui e i suoi amici dovrebbero imbarcarsi alla volta di Kos.

Dopo un viaggio difficile durato otto mesi in cui ha dovuto attraversare Pakistan e Iran, Ali, pakistano di 23 anni originario del Gujarat, si è fermato a Istanbul dove ha trovato lavoro in un mercato. “Ho fatto il commesso in uno stand di elettronica e rispetto a tanti altri mi è andata bene: il turco per cui lavoravo mi pagava 1000 lire al mese (308 euro) per 6 giorni a settimana”. Gli orari erano molto flessibili e sforavano sempre le 8 ore previste dalla legge turca, ma dopo un anno di lavoro è riuscito a raggiungere una somma sufficiente a pagarsi la traversata, ha preso un bus e “…ora eccomi qui, dovremmo partire stasera ma si è alzato il vento e temo che i trafficanti rimanderanno ancora una volta”.

Il mare, infatti, si fa sempre più mosso. Solo la settimana scorsa, 6 persone sono affogate di fronte alle coste di Kos. “La mamma ha detto che non possiamo attraversare da queste parti, è troppo pericoloso” dice Sarah, una bambina siriana di 9 anni originaria di Aleppo, spalancando i suoi occhi azzurri. E’ arrivata in città con la mamma, due sorelle più piccole e un fratellino di 8 mesi, e da tre giorni dorme in una moschea vicino al porto. “Ci spostiamo da qui oggi, prendiamo un bus per Izmir perché là il tratto di mare è più corto”.

Quello di Sarah non è un caso isolato, spiega la presidentessa della Bodrum Humanity Association, Ayça Kubat: “i media, soprattutto quelli stranieri, si sono concentrati molto sull’emergenza di Bodrum e la reputazione della città, nota località turistica, ne è uscita molto compromessa”. Ad agosto, i proprietari di barche e di hotel hanno protestato con la municipalità chiedendo che i rifugiati sparissero dalle strade e fossero raggruppati in posti più isolati e la polizia, che durante tutto il periodo estivo non mai intervenuta, ha iniziato a far scattare le manette.

“Per il governo turco Bodrum è diventata il simbolo dell’operazione di controllo dei rifugiati, soprattutto da quando l’UE ha ipotizzato un finanziamento alla Turchia di 3 miliardi di euro per contenere il flusso di rifugiati verso l’Europa”, spiega Kubat, “e in città i rifugiati sono effettivamente diminuiti, perché inviati nei campi profughi di Kilis, Gaziantep e Othmaniye, o messi su un bus per Istanbul per chi poteva permettersi una vita là”. Bodrum Humanity lavora spesso con la Guardia Costiera turca, portando cibo e vestiti per i rifugiati recuperati in mare e riportati sulle coste di Bodrum. “Ho aggiornamenti costanti anche da Kos, e nonostante tutto, la polizia e il maltempo, in media continuano a partire da qui tra le 400 e 500 persone al giorno” dice la presidentessa dell’associazione. I dati sono confermati anche da un’associazione di Kos, KRNYH, che si occupa di accogliere i nuovi arrivati. Non è un momento facile per l’associazione, supportata da una parte della cittadinanza e malvista dall’altra metà: “una volta durante le distribuzioni sono passati i poliziotti a fare dei controlli”, dice un volontario, “ci hanno accusato di aiutare le persone ad attraversare il mare, paragonandoci alla stregua dei trafficanti”.

“Di certo non possiamo restare bloccati in Turchia”, dice Shenan, ventottenne originario di Kabul, scappato dall’Afghanistan dopo che i Talebani avevano ucciso suo fratello, arruolato come lui nell’aviazione afgana: “sono due anni che sono in viaggio e ho provato a rimanere un po’ a Istanbul, ma le condizioni di vita sono impossibili”. Anche lui ha lavorato in una fabbrica tessile per racimolare un gruzzolo sufficiente a continuare il viaggio, ma la paga era bassissima, poco più di 150 euro.

“Non ho paura della polizia qui a Bodrum. I trafficanti, tutti pakistani, li pagano profumatamente per farci passare”, continua Shenan, “li ho visti coi miei occhi durante i quattro tentativi che abbiamo fatto per partire, e diverse volte ho dovuto anche sganciare dei soldi…chiedono a tutti noi ogni volta sulle 300 lire a testa per passare”: Shenan, viaggia da due anni con suoi quattro amici con cui non si è separato dal primo giorno in cui è partito dall’Afghanistan. “All’inizio eravamo in sei ad essere inseparabili” racconta, “ma uno è stato ucciso con una pallottola alla testa, sparata dalle guardie iraniane di frontiera mentre correvamo per attraversare il confine ed entrare nel paese, e un altro è morto assiderato al confine turco-iraniano”. In Iran degli uomini gli hanno offerto di andare a combattere come mercenario in Siria in supporto all’esercito del presidente siriano Bashar al Assad per 1500 dollari al mese: “mi hanno promesso che dopo un anno di guerra sarei potuto tornare in Iran e prendere il permesso di soggiorno, ma ho rifiutato…la mia destinazione finale è sempre stata l’Italia”.

Mentre racconta la sua storia, gli squilla il telefono e si allontana per una mezzora dal gruppo di persone in fila per la zuppa. Quando ritorna ha un sorriso stanco sulla faccia: “erano i trafficanti, hanno detto che il mio gruppo di afgani partirà lo stesso stanotte, ma io forse non posso andare” – dice Shenan, che parla perfettamente quattro lingue: inglese, pashto, dari e turco – “hanno detto che hanno bisogno di uno come me e mi hanno offerto di lavorare con loro, forse accetterò, ho bisogno di soldi”. Propone di chiamarlo sul numero turco il giorno dopo: se è acceso vuol dire che non è partito e ha accettato il lavoro, se è spento vuol dire che ha preso il mare. Saluta e si ritira con il suo gruppo di amici verso il parco dove ha dormito per prendere il suo zaino, mentre Egemen Ozturegen chiude il pentolone e impacchetta i sacchi del pane.

La mattina successiva Shenan non risponde al telefono: “il cliente da lei chiamato non è al momento raggiungibile” dice al suo posto una voce in turco.

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