Salvarsi dalle ossessioni

Sul palcoscenico ho imparato a non aver paura del corpo che cambia

Il dramma di una donna morta dopo un intervento di chirurgia estetica accende il pensiero su come la nostra società dialoghi con la bellezza. Silvia Gribaudi, coreografa e danzatrice, porta da molti anni sul palco uno sguardo nuovo sulla fisicità: «Non vedo nulla di sbagliato nel decidere di cambiare il proprio corpo. Con il mio lavoro invito alla consapevolezza, alla ricerca di un bello tridimensionale e dell'unicità»

di Daria Capitani

La notizia di una donna di 38 anni morta dopo un intervento di chirurgia estetica occupa lo spazio della cronaca. Accende il pensiero su come la nostra società dialoghi con i corpi. Di fisicità e di bellezza si occupa da molti anni Silvia Gribaudi, danzatrice e coreografa torinese. Ballerina contemporanea con una formazione classica, si è misurata a un certo punto della sua carriera con un corpo cambiato, divenuto all’improvviso non conforme. Si è interrogata sull’identità e sull’imperfezione, sulla diversità e sull’invecchiamento. «Nell’ammorbidirsi dei corpi in dialogo con il tempo c’è un linguaggio nuovo in grado di scalzare i confini tra danza, teatro e performing arts», dice. «Restituisce a chi guarda un senso di libertà».

Una scena dello spettacolo Graces, Silvia Gribaudi al centro. (Fotografia di Matteo Maffesanti)

È stata definita “autrice del corpo”. Può spiegarci perché?

Ho 50 anni e questo conta perché, quando ne avevo 15, le possibilità di osservare le differenze erano pochissime. Sono cresciuta, come il 150% delle ragazzine, con il mito di un corpo conforme e un’idea di danza legata a schemi e misure ben precise. Avere un’unicità marcata dovrebbe essere una cosa bella. In realtà, io l’ho vissuta come un dramma. A 28 anni il mio corpo è cambiato, ho capito che con determinate forme non avrei più potuto interpretare moltissimi ruoli “tradizionali”. Mi ha salvato l’ironia. Ho partecipato a un concorso per giovani coreografi, ci ho messo dentro tutto quello che provavo: è nato A corpo libero, uno spettacolo dissacrante in cui il mio corpo danza e occupa spazi pieni e vuoti, si relaziona con le sue curve e le sue “parti molli”. Ho scoperto la libertà di un corpo morbido e le sue potenzialità espressive: ogni frammento dei nostri corpi danza, così come la pelle che invecchia. Se non facciamo danzare una parte di noi, stiamo negando una parte della nostra vita. La danza è come la scelta di un abito da indossare: racconta di come vogliamo essere visti o di cosa vogliamo nascondere. I primi 30 anni della mia vita sono stati molto intensi dal punto di vista del dialogo con il mio corpo: grazie al suo cambiamento repentino, ho trovato una dimensione comunicativa. L’ho portata in progetti che avessero un valore artistico e non solamente sociale nei più importanti teatri nazionali e internazionali come nelle piazze: corpi che si esprimono nella loro rivoluzione in ogni luogo. Ogni danzatore è autore con il proprio corpo e chiunque si muova in uno spazio si esprime nella quotidianità con la propria fisicità. Il modo in cui tendiamo una mano è danza: ogni corpo porta con sé una sua originalità poetica, un modo di stare nel mondo, uno sguardo.

A 28 anni il mio corpo è cambiato, ho capito che con determinate forme non avrei più potuto interpretare molti ruoli “tradizionali”. Poi ho scoperto la libertà di un corpo morbido e le sue potenzialità espressive

Silvia Gribaudi, coreografa e danzatrice

I numeri forniti dall’International Society of Aesthetic Plastic Surgery ci dicono che gli interventi estetici eseguiti nel mondo crescono. Più 40% negli ultimi quattro anni. Soltanto in Italia, nel 2023 sono state effettuate 262.254 operazioni chirurgiche e 495.188 procedure non invasive. Che cosa cerchiamo nei nostri corpi?

Il corpo è un gioco continuo: quello che mangiamo e respiriamo cambia il nostro corpo e noi scegliamo in ogni momento come. Non vedo nulla di sbagliato nel decidere di cambiare il proprio viso, le rughe o le labbra dei nostri corpi, e le motivazioni sono sempre personali. Quello su cui invito a riflettere con il mio lavoro è la consapevolezza. Un invito a chiedersi ogni giorno quale sia il nostro rapporto con la vita, perché desideriamo cambiare e come. Cosa stiamo cercando come società e come persone dentro ai cambiamenti? Quale relazione coltiviamo con la vecchiaia? Sappiamo riconoscere il bello nelle trasformazioni fisiche, inevitabili? Le ballerine di inizio Novecento erano piene di curve, oggi il nostro modello è molto diverso, chissà quali nuovi canoni ci riserverà il futuro.

Non vedo nulla di sbagliato nel decidere di cambiare il proprio viso, le rughe o le labbra dei nostri corpi, e le motivazioni sono sempre personali. Quello su cui invito a riflettere con il mio lavoro è la consapevolezza

Silvia Gribaudi, coreografa e danzatrice

In ogni tempo l’idea di bellezza dialoga con la società. Come si può “resistere” ai canoni estetici dominanti?

Tenere a mente sempre altri modelli, cercare una pluralità di immagini, mai fermarsi alla più diffusa. Soprattutto, guardare i quadri: l’arte è portatrice di una diversità di bellezza. Se siamo troppo legati a un un unico tipo di moda, a un unico tipo di trasmissione televisiva, a un unico tipo di fisicità, ci facciamo influenzare da ciò che è più facile da vedere ma offre soluzioni monotematiche. Quando nascondiamo i segni dell’età, ci dimentichiamo che invecchiando abbiamo assunto una consapevolezza che da giovani non avevamo. C’è un valore nell’invecchiare e le rughe rappresentano la crescita che abbiamo vissuto. Intendiamoci, posso scegliere di averle come di non averle, l’importante è sapere che esistono entrambe le possibilità. La nostra ricerca di bellezza è un percorso che non conosce interruzioni: la tridimensionalità, con la profondità dei colori e dei volumi, sarà sempre meglio di una visione piatta. È un atto dovuto di rispetto verso noi stessi.

Ci sono almeno tre spettacoli con cui Gribaudi porta in scena il suo messaggio. In Graces lo fa attraverso quattro corpi molto differenti, ognuno bello a modo suo. A corpo libero è il solo da cui tutto ha avuto inizio. R.osa ha vinto il Premio Ubu grazie all’espressività corporea di Claudia A. Marsicano. È un successo che si rinnova da più di dieci anni. Si è mai chiesta perché?

Claudia A. Marsicano in R.osa. (Fotografia di Laila Pozzo)

Credo che rispondano a una necessità che è propria di tutti gli esseri umani: la libertà. Quando la vediamo, la sentiamo dentro. La gente esce felice, gioiosa, spogliata di maschere. Abbiamo bisogno di metterci a nudo e di mostrare la fragilità come punto di forza. Cadere dal piedistallo è un esercizio: si perde potere ma si acquista umanità. Si ottiene un altro tipo di potere: la possibilità di portare avanti ciò che si vuole, non quello che ci mettono addosso gli altri. Nel mio nuovo spettacolo (Suspended Chorus, in scena il 17 e il 18 maggio al Teatro Stabile di Torino), non a caso interrogo il pubblico su come possiamo rivoluzionare il nostro sguardo sui corpi degli altri.

In apertura, Silvia Gribaudi nello spettacolo A corpo libero. La fotografia è di Samanta Cinquini

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