Se si passano in rassegna regolarmente le notizie che riguardano le carceri, non si può non notare che quelle che ritornano più di frequente hanno a che fare con suicidi o tentati suicidi: comunicati scarni con le iniziali del detenuto e il solito modo di ammazzarsi, col fornelletto a gas o impiccandosi con mezzi “di fortuna”. Già, perché il carcere si tutela dal rischio di suicidio dei suoi “utenti” levando loro le cinture, le stringhe e altre possibili armi improprie, ma evidentemente questo non basta… Ornella Favero (email: ornif@iol.it)
Un suicidio ogni cinque giorni nel 2001, oltre 250 negli ultimi quattro anni. Questi dati non si riferiscono a una regione e nemmeno a una grande città, ma ai detenuti nelle carceri italiane dove ci si uccide con una frequenza molto maggiore rispetto alla media nazionale. Potrebbe sembrare scontato, visto che la detenzione comporta un tale impoverimento esistenziale (in termini di rapporti sociali, di autonomia personale e autostima) da rendere preferibile la morte, a volte, piuttosto che il trascinarsi di una vita così opaca. Niente di più sbagliato. A uccidersi non sono quasi mai i detenuti con le pene più lunghe, le ragioni che portano un detenuto a togliersi la vita sono molto più complesse. I suicidi in carcere stanno diventando in questi anni un problema sempre più serio, tanto che nel dicembre del 1987 l’amministrazione ha istituito il “Servizio nuovi giunti”, avendo individuato nel periodo immediatamente successivo all’arresto quello a maggior rischio di atti autoaggressivi. Questo servizio, presente in tutte le carceri, si concretizza in un colloquio tra le persone appena arrestate e uno psicologo che dovrebbe capire, tra l’altro, se queste persone corrono il rischio di uccidersi. Nel carcere la precauzione solitamente adottata è rinchiudere questa persona in una cella liscia, un parallelepipedo senza nessun oggetto all’interno e nessun appiglio alle pareti. Ma anche in queste condizioni qualcuno riesce a uccidersi, annodandosi attorno al collo una striscia di stoffa strappata dalla camicia. Gli interventi di tipo costrittivo andrebbero piuttosto sostituiti dal sostegno psicologico alla persona. Chiedere aiuto in modo esplicito agli operatori non è semplice, anche perché la paura di essere ricoverati all’Ospedale psichiatrico giudiziario “per accertamenti” fa ormai parte dell’immaginario di ogni detenuto. Se ci fosse maggiore attenzione ai messaggi che una persona in difficoltà lancia, forse si potrebbero evitare buona parte dei suicidi tra i detenuti. Ma chi dovrebbe raccogliere queste richieste di aiuto? I medici… che spesso ti “visitano” in 30 secondi e poi ti prescrivono le solite “gocce per dormire”? Gli operatori dell’area … che ti vedono una o due volte all’anno? Gli agenti… per i quali stai sempre facendo la commedia?
Francesco Morelli
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