Africa

Sudan, una tragedia che resta nell’ombra

18 mesi di guerra, 20mila morti, 10 milioni di sfollati e il silenzio della comunità internazionale. «È una delle crisi umanitarie più gravi del mondo», dice Alda Cappelletti, senior humanitarian advisor dell'organizzazione umanitaria Intersos

di Alice Rimoldi

«Ho lavorato qui in Darfur nel 2007 e dopo 15 anni è stato commovente trovare le stesse persone che si ricordavano di me. Quando me n’ero andata la popolazione stava rimettendo assieme le proprie vite, si stava creando un futuro. Ora invece sembra di essere tornati al punto di partenza. Rivedo le stesse dinamiche, come se la storia si ripetesse. C’è però tanta voglia di ricominciare e ancora si spera in un futuro migliore».

Alda Cappelletti, senior humanitarian advisor di Intersos, da poco rientrata dal Sudan, definisce la situazione attuale come «una delle crisi umanitarie più gravi al mondo, quella con il maggior numero di sfollati». Ma quando è iniziato tutto? Il 15 aprile del 2023 dopo gli scontri tra l’esercito sudanese e il gruppo paramilitare delle Rapid Support Forces? O forse dobbiamo tornare al 2003 quando è scoppiata la guerra in Darfur tra i movimenti armati ribelli e il Governo, che ha risposto attuando un genocidio contro la popolazione di origini africane. Oppure ancora il nostro “quando” va ricercato nella guerra civile combattuta tra il 1983 e il 2005 che ha portato all’indipendenza del Sud Sudan? In Sudan da aprile dell’anno scorso sono morte circa 20mila persone, ma i dati sono talmente difficili da reperire che il numero reale potrebbe essere molto più alto. 

È passato più di un anno dall’ultima crisi, quando il vicepresidente, il generale Mohammed Hamdan Dagalo, noto come Hemedti, a capo della milizia Rapid Support Forces (Rsf), ha attaccato la capitale Kharthum scatenando una guerra contro il presidente Abdel-Fattah Abdelrahman al-Burhan. I due generali avevano già servito sotto il regime del dittatore al-Bashīr (al potere dal 1989 al 2019). Il primo era a capo delle milizie arabe Janjaweed, note per i massacri da loro perpetrati nel Darfur contro la popolazione di etnia africana, come i Fur e i Masalit. Al-Burhan, che controlla l’esercito ufficiale Sudanese Arm Forces (Saf), era invece generale delle forze di terra. Nel 2021 rovesciano il Governo di transizione guidato dall’economista Abdalla Hamdok e instaurano un regime militare, ma arrivano allo scontro dopo la decisione di integrare nell’esercito regolare le Rsf e per il controllo delle miniere d’oro del Paese.

Su una popolazione di 50 milioni di persone, oggi 10 milioni sono sfollate a causa del conflitto, ma anche a causa delle alluvioni che hanno danneggiato le infrastrutture. «2,4 milioni sono rifugiati nei Paesi vicini: il Ciad, l’Egitto, il Sud Sudan, la Repubblica Centrafricana. In particolare il Ciad ospita il maggior numero di sfollati, 781mila, seguito dal Sud Sudan con 707mila. I rifugiati vivono in campi ufficiali gestiti dalle Nazioni Unite e dalle organizzazioni umanitarie». I Paesi ospitanti sono a loro volta nazioni in crisi, in cui imperversano conflitti. Il maggior numero di sfollati sudanesi è però interno, si tratta di più 7 milioni di persone, la gran parte di loro proviene dalla regione della capitale, da cui è partito il conflitto, e dal Darfur. Alda Cappelletti spiega: «Non sono stati costruiti nuovi campi, perché il Governo è contrario, quindi usiamo ancora molti di quelli nati nei primi anni 2000 per gli sfollati della crisi del Darfur. Negli anni sono diventati quasi dei piccoli villaggi o quartieri. Ma ho visto famiglie, anche se gli sfollati sono prevalentemente donne e bambini, cercare riparo in edifici pubblici dismessi come quelli delle banche. Alcuni stanno addirittura all’addiaccio, ho visto persone accampate nelle stazioni di servizio». La mancanza di strutture adeguate comporta l’assenza dei servizi di base: «le condizioni di queste famiglie sono disperate, non hanno accesso a cibo, acqua o servizi igienici, sono in una situazione di precarietà assoluta. Ma quel che è peggio è che non sono in sicurezza, sono a rischio di nuovi attacchi».

Con l’80% delle strutture sanitarie fuori servizio le organizzazioni umanitarie cercano «di riattivare e ripristinare delle cliniche nei villaggi. È più di un anno che la popolazione non ha accesso al servizio sanitario. Abbiamo anche allestito delle cliniche mobili che cercano di raggiungere gli sfollati in questi setting del tutto temporanei e precari. Dal momento che il conflitto è così polarizzato, come strategia generale, si è deciso di lavorare sia nelle aree controllate dal Governo, sia in quelle controllate dai paramilitari delle Rapid Support Forces per assicurare massima neutralità in modo da riuscire a raggiungere tutta la popolazione più vulnerabile, da qualunque parte essa si trovi». 

All’inizio del 2024 il World Food Program ha dichiarato che il 95% della popolazione fatica a procurarsi un pasto al giorno. In particolare nel campo profughi di Zamzam ad Al-Fashir, la capitale del Darfur settentrionale, le organizzazioni internazionali hanno rilevato il massimo livello di insicurezza alimentare (Ipc5) per 500mila persone. Cappelletti fa notare che si sono diffuse anche epidemie «in questo momento», dice, «in almeno 8 Stati del Paese è scoppiato un’epidemia molto grave di colera (6mila casi rilevati) e c’è una grossa difficoltà, anche da parte delle Nazioni Unite e dell’Oms, a far entrare nel Paese i kit necessari alla gestione dell’infezione».

Le zone più colpite sono quelle della capitale e del Darfur, dove il conflitto assume una connotazione etnica: «abbiamo assistito ad attacchi mirati a gruppi etnici particolari di ceppo africano (Fur e Masalit) da parte dei combattenti di Rsf, le Rapid Support Forces, che per lo più sono di etnia araba e questo non rappresenta niente di nuovo. È la replica di quanto è accaduto nel 2003». Il Darfur occidentale, in particolare la città di Geneina, è stato teatro di numerosi massacri e l’80% della popolazione Masalit è fuggita in Ciad.

Va sottolineato però che «non c’è un colpevole solo tra le due fazioni, le brutalità e le violenze sono commesse da tutte le parti in conflitto. Alle due principali si aggiungono anche la miriade di gruppi armati, non necessariamente schierati, come Sudan Liberation Army o Sudan People Liberation Movement», spiega Cappelletti.

Come nella maggior parte dei conflitti «le donne e i bambini sono le vittime principali», aggiunge. «La violenza di genere anche qui viene usata come arma di guerra. La situazione ha raggiunto livelli allarmanti ma non se ne conosce fino in fondo l’estensione per la riluttanza delle vittime a parlarne, a causa dello stigma associato. E chi decide di denunciare spesso non ci riesce perché il sistema giudiziario è al collasso».

«Come Intersos forniamo assistenza medica e supporto psicosociale nei campi profughi dove siamo presenti. Poi lavoriamo con la comunità per ripristinare i sistemi di protezione interni ai gruppi. Per esempio uno dei momenti nei quali le donne sono più soggette al rischio di violenza è quando si allontanano dal villaggio per procurarsi la legna o l’acqua. In queste occasioni si organizzano gruppi di donne per evitare che una di loro si trovi da sola, oppure vengono accompagnate dai ragazzi del villaggio». 

In Sudan la risposta umanitaria è però ostacolata anche dal Governo ufficiale, «a marzo le Saf», spiega la Senior Humanitarian Advisor di Intersos, «hanno ritirato l’assenso ad usare il valico di Adre’ con il Ciad per il passaggio dei beni essenziali. Le Nazioni Unite hanno deciso di rispettare questa direttiva e hanno interrotto il flusso di aiuti. Gli altri valichi concessi, come quello di Tine al confine Nord col Ciad, si sono presto rivelati impraticabili. Le organizzazioni umanitarie hanno continuato ad utilizzare quello di Adre’ nonostante il divieto, ma non è stato possibile portare una quantità sufficiente di beni di prima necessità per rispondere al bisogno della popolazione». Ad agosto il valico è stato riaperto, ma «il numero di camion che stanno passando è ancora troppo basso».

In Occidente la crisi sudanese ha poca risonanza ed è sempre più complicato reperire dati certi sul numero di morti e persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria anche perché in molte zone non è possibile accedere e il sistema delle telecomunicazioni è al collasso: «Starlink ha minacciato di togliere il servizio e siamo tutti con il fiato sospeso perché non ci sarebbe altro modo per comunicare. Le reti telefoniche non coprono tre quarti del Paese». Si sente parlare poco di questa crisi, ma non solo per la mancanza di dati certi. Alda Cappelletti sottolinea che «il mondo è flagellato da crisi. C’è anche un doppio standard, già visto con Gaza rispetto alla crisi dell’Ucraina, in termini di attenzione e soprattutto di finanziamenti. Il Sudan è l’ultimo della lista, la risposta umanitaria è una delle meno finanziate al mondo. Le vicende africane ci interessano quando ci toccano direttamente, quando parliamo di migranti o di Mediterraneo, per il resto è molto facile far cadere queste crisi nell’oblio».

I fondi per la risposta alla crisi sono inadeguati e gli sforzi diplomatici restano in stallo anche perché le parti in conflitto non hanno nessuna intenzione di negoziare. Cappelletti continua: «dalla fine dello scorso anno, e poi ufficialmente da febbraio,  la Missione Integrata di Assistenza alla Transizione delle Nazioni Unite in Sudan, Unitams, è stata sospesa su richiesta del Governo sudanese. Il personale Onu ora è rimasto solo a Port Sudan. Le agenzie umanitarie come Unicef, Unhcr e Oms continuano però ad operare».

I passi da fare sono tanti: «Innanzitutto serve la cessazione delle ostilità, in modo che la gente possa tornare a coltivare la terra e uscire dalla crisi alimentare. Serve la continuazione degli sforzi diplomatici della comunità internazionale anche per assicurare l’entrata nel Paese di centinaia di camion con i beni di prima necessità. Ugualmente importante è aumentare il supporto in denaro alla popolazione perché le famiglie possano accedere direttamente ai mercati, dove attivi, ed essere autonomi. Gli step devono però essere fatti in contemporanea perché la situazione è troppo grave». 

AP Photo/Marwan Ali/Lapresse

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