Il Sudan è in bilico e tutti gli sforzi profusi in questi anni per realizzare un processo di pacificazione nazionale potrebbero essere vanificati. Gli Stati Uniti ieri hanno chiesto al governo di Khartoum l’immediata “cancellazione delle restrizioni sui partiti politici”, a pochi giorni dalle elezioni presidenziali, legislative e regionali che le forze di opposizione intendono boicottare. D’altronde, il ritiro dalla competizione elettorale, avvenuto in questi giorni, di personaggi del calibro di Yasser Arman, candidato del Movimento per la liberazione popolare del Sudan (Splm), e di altri 4 candidati come l’ex premier Sadek al-Mahdi, leader dell’Umma Party, sono segnali estremamente preoccupanti che potrebbero compromettere lo svolgimento del referendum in programma il prossimo anno sull’autodeterminazione delle regioni meridionali del Paese. E come se non bastasse, sempre ieri il Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (Jem), ha accusato il governo sudanese di aver bombardato le proprie postazioni militari lungo il confine con il Ciad. Il raid sarebbe stato compiuto dall’aviazione colpendo le località di Abu Hamra, Furawiya e Jabel Moun. A questo punto anche il negoziato di Doha tra il Jem e le autorità sudanesi rischia il fallimento, procrastinando le sofferenze del popolo darfuriano. A detta degli osservatori, le speranze di pace sia per quanto concerne il Sud Sudan come anche il Darfur dipendono molto dalla comunità internazionale che non può rimanere alla finestra a guardare. Proprio per questa ragione ieri l’inviato Usa per il Sudan, Scott Gration, è ritornato a Khartoum a meno di una settimana dalle elezioni, che si svolgeranno dall’11 al 13 aprile. Ma non v’è dubbio che il cammino verso la pace è tutto in salita.
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