Mondo

Sudan: quando la Sharìa trascende diritto e politica

di Giulio Albanese

Vorrei condividere con i lettori di questo Blog alcune considerazioni sul caso di Meriam Yahia Ibrahim Ishag. Si tratta della giovane donna sudanese, di fede cristiana – condannata a morte per apostasia nel proprio Paese e poi scagionata – e che forse domani (domenica) potrebbe finalmente lasciare il Sudan, alla volta degli Stati Uniti con la sua famiglia.

Com’è noto, nonostante la scarcerazione, Meriam è stata costretta a trovare riparo nell’ambasciata Usa a Khartoum. Un’odissea che si è procrastinata nel tempo, almeno su un piano formale, per due cavilli burocratici. Il primo legato al suo passaporto, non considerato regolare per l’espatrio (questione ora risolta). Il secondo, perché sprovvista del nulla osta della Corte d’appello che dimostri l’annullamento della sentenza di condanna a morte. C’è da augurarsi che nelle prossime ore questo benedetto documento esca fuori. In ogni modo, l’ospitalità concessa dall’ambasciata statunitense sembra metterla, quanto meno per ora, al riparo anche se si stanno profilando ulteriori complicazioni. Pare infatti che in questa intrigata vicenda il fratello di Meriam abbia dichiarato di essere andato dalla polizia per denunciare il “rapimento” di Meriam da parte del marito (cittadino americano), poco prima che lei cercasse di partire per gli Stati Uniti. Si tratta, peraltro, dello stesso parente della donna che pochi giorni fa aveva dichiarato che se non si fosse pentita e convertita all’islam, avrebbe dovuto morire.

Una cosa è certa: questo caso dovrebbe essere oggetto di un attento studio, sia dal punto di vista del diritto come anche per le implicazioni politiche, a livello internazionale, che ne conseguono. Il vero problema – che per certi versi sfugge a noi occidentali – è che la sharìa, la legge islamica, viene declinata nel mondo islamico con due diverse modalità. Sul piano strettamente giuridico, la competenza è della magistratura locale, ma dal punto di vista religioso la sharìa per gli Stati islamici (dunque anche per il Sudan), si pone come norma superiore anche a quelle costituzionali e viene dunque assunta come una fonte suprema di legittimazione del potere giurisprudenziale e politico. In altre parole, il sistema del diritto islamico, nella cosiddetta Umma, la comunità dei credenti musulmani, appare connotato da una sorta di “diritto apicale comune” sovrastante quello dei singoli Stati islamici. In questa prospettiva, la sharìa non può essere intesa alla semplice stregua di un codice di diritto civile o penale, ma rappresenta un vero e proprio sistema di principi insindacabili, anni luce distante dall’immaginario occidentale, trascendendo il diritto e la stessa politica. È per così dire il fondamento, in chiave teocratica, di ogni istituzione su cui si fonda ogni singolo Stato nazionale.

Da questo si evince che la povera Meriam è stata oggetto di vessazioni da parte della magistratura sudanese e delle autorità locali per il semplice fatto che la sharìa è inconciliabile col principio di suddivisione dei poteri legislativo, giudiziario ed esecutivo. Va ricordato che la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo è stata chiamata in passato a giudicare in merito all’applicazione della sharìa in Europa, dichiarando che i principi iscritti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo sono incompatibili con la legge islamica poiché tale ordinamento ha un carattere personale e confessionale, che esproprierebbe il ruolo statale di regolazione della vita sociale, introducendo distinzioni tra gli individui basati sulla religione. Occorre pertanto che la diplomazia internazionale, dunque anche la nostra, esercitasse un’opera di convincimento sui governi islamici affinché vengano riconosciuti i principi fondamentali che reggono le moderne democrazie. Non per bandire l’islam, ma per favorire un giusto modello di integrazione e cooperazione, scongiurando la palese violazione dei principi sanciti dalla comunità internazionale in materia di diritti umani.

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