In Sudan è andato tutto secondo quelle che erano le previsioni della vigilia elettorale. Omar Hassan El Bashir continua infatti a fare il presidente, avendo vinto le prime elezioni multipartitiche da 24 anni a questa parte. Lo ha annunciato ieri la commissione elettorale, precisando che ha ottenuto il 68 per cento dei suffragi, quasi sette milioni di votanti, rispetto agli oltre dieci milioni degli aventi diritto.
Una vittoria di misura sugli avversari anche se, a detta degli osservatori, non c’è stato quel plebiscito che molti davano per scontato, soprattutto dopo le accuse di brogli ed il ritiro di due dei suoi maggiori avvrsari dalla competizione elettorale. E se da una parte la conferma di Bashir alla massima carica dello Stato lo rilegittima di fronte alla comunità internazionale, rispetto alle gravissime accuse di crimini d’ogni genere da parte della Corte Penale Internazionale (Cpi); dall’altra Human Rights Watch (Hrw), l’organizzazione impegnata nella difesa dei diritti umani, si è impegnata nello stigmatizzare l’oppressione politica in Sudan, in un clima di intimidazione caratterizzato da fermi e arresti arbitrari di attivisti dell’opposizione. Insomma, le elezioni sarebbero state una farsa studiata nei minimi particolari dal regime di Bashir. Comunque, è bene precisare che, tra gli osservatori che hanno seguito lo svolgimento delle elezioni, non tutti la pensano come Hrw. Ad esempio, l’ex presidente Usa Jimmy Carter ed il suo team di osservatori hanno accettato i risultati, non avendo riscontrato scontri, né violenze particolarmente gravi, durante i cinque giorni delle elezioni, tali da pregiudicare il verdetto finale.
Da rilevare che nel Sudan meridionale è stato rieletto presidente Salva Kiir Mayardit, leader degli ex ribelli dell’Esercito di Liberazione Popolare del Sudan (Spla), a riprova che le popolazioni del Sud guardano con speranza al referendum per l’autodeterminazione, in programma il prossimo anno. D’altronde, da quelle parti, la gente è a dir poco esasperata e non sopporta neanche lontanamente l’ipotesi di u nuovo conflitto. È bene rammentare che stiamo parlando di un Paese, il Sudan, che dall’indipendenza ad oggi è quasi sempre stato in guerra. Dalla prima ribellione denominata Anya Nya I (dal 1955 al 1972), alla seconda edizione del conflitto (dal 1983 al 2005), a cui si è aggiunta, come se non bastasse, la rivolta del Darfur che, dal febbraio del 2003, ha seminato morte e distruzione, con ripercussioni notevoli anche sul vicino Ciad.
Detto questo, anche se chi scrive non ha il carisma della chiaroveggenza, vi sono almeno tre variabili da non sottovalutare guardando al futuro: la prima riguarda il ruolo delle grandi potenze, soprattutto Stati Uniti e Cina. L’inviato Usa per il Sudan, Scott Gration, è un acceso sostenitore del processo di pace, ma vorrebbe che il governo di Pechino, tradizionale alleato di Bashir, uscisse definitivamente allo scoperto. La stabilità, in questa prospettiva, potrebbe essere garantita dall’applicazione di una strategia comune del business del petrolio di cui è ricco il sottosuolo sudanese. Ed è proprio questo il secondo elemento che andrebbe evidenziato, quello degli interessi stranieri legati all’oro nero che hanno sempre pesantemente condizionato la storia post coloniale sudanese. La spartizione dei proventi petroliferi rimane infatti un nodo da sciogliere non solo tra Nord e Sud Sudan, ma anche in chiave internazionale. Vi è poi una terza questione che non dovrebbe essere sottovalutata: la cronica riottosità tra le varie etnie delle regioni meridionali che indebolisce non solo il fronte dell’autonomia, ma pare sia addirittura fomentata da Khartoum secondo la vecchia logica del “divide et impera”. Anche sei pastori i Denka vorrebbero parlare di “cieng”, traducibile con “vivere insieme in armonia”, mentre i Misseriya pronunciano spesso nel loro discettare la parola “salam”, la pace agognata, il cammino di riconciliazione è tutto in salita. D’altronde, da quelle parti, la gente è esasperata e non sopporta neanche lontanamente l’ipotesi di u nuovo conflitto. È bene rammentare che stiamo parlando di un Paese, il Sudan, che dall’indipendenza ad oggi è quasi sempre stato in guerra. Dalla prima ribellione denominata Anya Nya I (dal 1955 al 1972), alla seconda edizione del conflitto (dal 1983 al 2005), a cui si è aggiunta, come se non bastasse, la rivolta del Darfur che, dal febbraio del 2003, ha seminato morte e distruzione, con ripercussioni notevoli anche sul vicino Ciad.
Detto questo, anche se chi scrive non ha il carisma della chiaroveggenza, vi sono almeno tre variabili da non sottovalutare guardando al futuro: la prima riguarda il ruolo delle grandi potenze, soprattutto Stati Uniti e Cina. L’inviato Usa per il Sudan, Scott Gration, è un acceso sostenitore del processo di pace, ma vorrebbe che il governo di Pechino, tradizionale alleato di Bashir, uscisse definitivamente allo scoperto. La stabilità, in questa prospettiva, potrebbe essere garantita dall’applicazione di una strategia comune del business del petrolio di cui è ricco il sottosuolo sudanese. Ed è proprio questo il secondo elemento che andrebbe evidenziato, quello degli interessi stranieri legati all’oro nero che hanno sempre pesantemente condizionato la storia post coloniale sudanese. La spartizione dei proventi petroliferi rimane infatti un nodo da sciogliere non solo tra Nord e Sud Sudan, ma anche in chiave internazionale. Vi è poi una terza questione che non dovrebbe essere sottovalutata: la cronica riottosità tra le varie etnie delle regioni meridionali che indebolisce non solo il fronte dell’autonomia, ma pare sia addirittura fomentata da Khartoum secondo la vecchia logica del “divide et impera”. Anche sei pastori i Denka vorrebbero parlare di “cieng”, traducibile con “vivere insieme in armonia”, mentre i Misseriya pronunciano spesso nel loro discettare la parola “salam”, la pace agognata, il cammino di riconciliazione è tutto in salita.
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