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Sudan, chi c’è dietro alla guerra
La lotta per il potere tra il generale Abdel-Fattah Burhan e il generale Mohammed Hamdan Dagaloi, i due massimi leader militari del Sudan, che ha fatto precipitare nel caos per l'ennesima volta il martoriato paese africano. A inizio mese dovevano accordarsi su come organizzare le elezioni entro quest'anno e, invece, da sabato scorso il conflitto fa tremare la regione, una delle più instabili al mondo visto che i paesi confinanti sono Sud Sudan, Ciad, Etiopia, Eritrea, Libia, Repubblica centroafricana ed Egitto.
di Paolo Manzo
Jet da combattimento che volavano bassi bombardando mentre il fumo nero oscurava aree il cielo di Khartoum. Sabato mattina la capitale del Sudan si è svegliata così e, da allora, «i combattimenti sono in corso e possiamo sentire proiettili e bombardamenti tutt'intorno a noi», spiega Elsadig Elnour, direttore del Sudan Islamic Relief. «Gli edifici sono in fiamme e il fumo riempie il cielo. Le persone sono intrappolate nelle loro case e spaventate da ciò che accadrà nei prossimi giorni. La vita è paralizzata, tutto è chiuso e le scorte di cibo stanno finendo». Quattro anni dopo che una rivolta popolare estromise il dittatore Omar al-Bashir, la lotta per il potere tra il generale Abdel-Fattah Burhan e il generale Mohammed Hamdan Dagalo, i due massimi leader militari del Sudan, sta facendo di nuovo centinaia di morti. I negoziatori occidentali avevano sperato che i due finalizzassero un accordo di condivisione del potere all'inizio di questo mese e iniziassero a riportare il paese verso un governo democratico, ma ora il conflitto minaccia di degenerare in una guerra civile.
Dietro gli scontri c’è la rivalità tra l'esercito sudanese e il gruppo paramilitare noto come RSF, acronimo di "Forze di supporto rapido". Dal colpo di stato del 2021 che mise fine al governo di transizione istituito dopo la caduta di al-Bashir due anni prima, il Sudan è gestito dall'esercito, con il leader di quel golpe, il generale Burhan, presidente de facto. Le RSF che contano di 100.000 soldati sono invece guidate dal generale Dagalo, vice presidente de facto, che tutti in Sudan chiamano Hemedti, ovvero il “Piccolo Mohamed".
In Sudan, purtroppo, la guerra è di casa. Non a caso i combattimenti hanno portato nel 2011 alla secessione del Sud Sudan, alla condanna della Corte penale internazionale (CPI) che le forze filo-governative avevano commesso un genocidio in Darfur nel 2015, alla disputa nella contesa regione di confine di al-Fashaga (Tigray) con l’Etiopia nel 2020-2021 e, soprattutto, a un infinità di morti. Solo la guerra tra i secessionisti del sud e il governo di Khartoum del nord si è portata via più di 2 milioni di vite. Un accordo di pace ha poi diviso il Sudan 12 anni fa, con un referendum che ha sancito la nascita di una nuova nazione, il Sud Sudan. L'altro conflitto che ha dissanguato la nazione è stato il genocidio in Darfur, dove la violenza a sfondo etnico ha ucciso 300.000 persone dal 2003, secondo una stima dell'ONU, con gruppi di miliziani arabi che hanno distrutto interi villaggi abitati da comunità Bantu. Per le atrocità al-Bashir fu condannato nel 2015 per genocidio dalla CPI, ma non fu arrestato. All’epoca Hemedti era il comandante della temuta milizia Janjaweed (da cui sono nate le RSF) accusata di stupri di gruppo, incendi di villaggi e uccisioni di massa durante la guerra ventennale in Darfur.
Dopo il rovesciamento di Bashir nel 2019, la transizione politica avrebbe dovuto portare ad elezioni entro la fine di quest'anno, con Burhan che prometteva una transizione verso un governo civile. Ma né lui né Hemedti hanno evidentemente intenzione di rinunciare al potere, come purtroppo dimostra la violenza scoppiata il 15 aprile.
Secondo alcune fonti gli scontri sarebbero frutto di stato un disaccordo su come i 100.000 paramilitari delle RSF dovrebbero essere incorporati nell'esercito sudanese. Di sicuro la violenza stava covando da tempo, casus belli il controllo delle miniere d’oro del paese africano.
Almeno 185 persone sono state uccise negli ultimi tre giorni di combattimenti e più di 1.800 sono i feriti secondo l'inviato delle Nazioni Unite Volker Perthes. Entrambe le parti stanno usando carri armati, artiglieria, aerei da combattimento e armi pesanti in aree densamente popolate. Finora non esiste un rapporto ufficiale su quanti civili e combattenti abbiano perso la vita, l’unica certezza sono le decine di migliaia di soldati pesantemente armati schierati dai due generali.
Il Sudan ha avuto più colpi di stato di qualsiasi altra nazione africana. Dall'indipendenza dal Regno Unito nel 1956, ci sono stati colpi di stato nel 1958, 1969, 1985, 1989, 2019 e nel 2021. Ora il dramma è che ci sono due uomini potenti, entrambi con un esercito a loro disposizione, che combattono l’uno contro l'altro per il potere. La preoccupazione degli analisti internazionali è che si possa destabilizzare l'intera regione, a cominciare dai confinanti Ciad, che non a caso ha già chiuso la sua frontiera, e dall'Etiopia, che si sta ancora riprendendo dalla guerra nella regione del Tigray.
Hemedti ha chiesto ieri che la comunità internazionale «intervenga» contro le forze di Burhan, che ha descritto come un «islamista radicale che bombarda i civili dall’aria». Da parte sua, l’esercito sudanese ha accusato le RFS di entrare in aree densamente popolate di Khartoum e di usare metodi di guerriglia.
Katharina von Schroeder, che lavora in Sudan come direttrice dell'advocacy e della comunicazione per le campagne di Save the Children, con il figlio di 8 anni, è intrappolata in una scuola della capitale da sabato mattina. «È il nostro terzo giorno di scuola, abbiamo dormito su materassi in palestra. Siamo esausti. Ieri e l'altro ieri la battaglia è stata molto dura, si sono sentiti pesanti bombardamenti nelle vicinanze e siamo corsi nel seminterrato per proteggerci», spiega, denunciando il terribile impatto umanitario che la violenza avrà nel paese. La guerra è arrivata infatti mentre il Sudan stava affrontando la peggiore crisi umanitaria della sua storia, con conflitti, epidemie e degrado economico che hanno causato la necessità di aiuti umanitari per 15,8 milioni di persone, ovvero un terzo dell'intera popolazione.
A detta di Mohammed Awad, direttore del quotidiano Al Yarida, quella in corso «non è una guerra civile ma una guerra militare tra fazioni. La società civile è unita e pacifica, i nostri giovani hanno portato Bashir in prigione e questo è uno scontro tra fazioni senza il sostegno civile». Awad spera che il risultato sia una questione di «pochi giorni» a causa della superiorità aerea dell'esercito sudanese, ma crede che Hemedti possa ritirarsi nel Darfur, la regione dove domina e che da lì potrebbe iniziare una nuova fase di questa assurda guerra. «Sarà molto difficile fermarlo in Darfur, penso che perderemo la regione perché anche i mercenari russi del Gruppo Wagner sono nella Repubblica Centrafricana e nel Darfur e le relazioni di Hemedti con la Russia sono sempre più strette e sospette».
Sia l'Arabia Saudita che gli Emirati Arabi Uniti hanno chiesto un cessate il fuoco in una dichiarazione congiunta con il Segretario di Stato statunitense Antony Blinken che ieri dal G-7 in Giappone ha lanciato un appello: «la gente in Sudan vuole che i militari tornino nelle caserme, vuole la democrazia, vuole un governo a guida civile». Mentre le morti di civili confermate si avvicinavano a 200, gli analisti avvertono che un conflitto prolungato potrebbe avvantaggiare gli estremisti islamici e gli insorti sostenuti dalla Russia nella regione, oltre a minare il suo commercio e la crescita economica.
L’unica certezza è che il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite ha fermato le operazioni in Sudan dopo la morte di tre dipendenti in Darfur e che i mortai hanno sviscerato gli ospedali della capitale che hanno esaurito le scorte di sangue e il carburante dei generatori. Nove a Khartoum hanno chiuso, tre a causa di bombardamenti diretti, hanno fatto sapere disperati i medici sudanesi.
Oltre ai già citati Ciad ed Etiopia, anche gli altri paesi confinanti, ovvero Sud Sudan, Libia e Repubblica Centrafricana, stanno affrontando disordini interni e «l'instabilità del Sudan significa instabilità all'interno della regione», ha dichiarato Ezekiel Lol Gatkuoth, ex ministro del petrolio del Sud Sudan, dove l'iperinflazione ha impoverito le famiglie e soldati e uomini armati non pagati hanno recentemente saccheggiato magazzini di aiuti e ucciso operatori umanitari. Oltre ai profondi legami con il Darfur, Hemedti ha anche legami familiari in Ciad.
«Se questa guerra continua, il Darfur brucerà», lancia l'allarme Alan Boswell, direttore del progetto del Crisis Group per il Corno d'Africa. «Più a lungo si trascina, più è probabile che vedremo attori esterni iniziare a schierarsi e questo renderà più difficile il processo di riconciliazione politica».
Hemedti ha fatto i soldi inviando 15.000 delle sue truppe in Yemen per sostenere l'intervento guidato dai sauditi e ha legami con i potenti militari della vicina Eritrea oltre che con i mercenari russi del Gruppo Wagner. Non a caso era da Putin all'inizio della guerra in Ucraina, promuovendo una possibile base militare di Mosca sul Mar Rosso. Un rischio visto che Wagner è attivo anche nella Repubblica Centrafricana, dove gruppi per i diritti umani l'hanno accusata di uccidere civili nei siti minerari. Anche per questo Hemedti è stato ribattezzato dai media il “Prigozhin”sudanese, essendo la sua forza di supporto rapido l'equivalente africano del Gruppo Wagner. Ma mentre l'uomo d'affari russo mantiene la sua disputa con il generalato del suo paese in termini verbali, Hemedti ha avviato una guerra aperta che ha trasformato Khartoum nel suo campo di battaglia principale. Come pagamento per la feroce pulizia etnica perpetrata dai Janjaweed, al Bashir gli aveva concesso il controllo delle miniere d’oro e la conversione delle sue milizie beduine nella potente RSF. Il generale Burhan, da parte sua, ha il sostegno del governo appoggiato dai militari in Egitto, la nazione araba più popolosa, oltre a potere contare su molta più aviazione.
In mezzo a tante incognite, l’ultima certezza per gli analisti: più a lungo i combattimenti continueranno, maggiore è il pericolo che le due parti cerchino di reclutare civili su basi etniche o tribali offrendo in cambio potere, oro e armi ai gruppi locali per ottenere il loro sostegno.
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