I lettori di questo Blog avranno saputo che giovedì scorso nei pressi della miniera di platino di Marikana, in Sudafrica, è avvenuta un’orribile mattanza. Stando alle informazioni che ho raccolto, la polizia ha aperto il fuoco contro i manifestanti, molti dei quali pare fossero armati di machete. Col risultato che almeno 35 minatori sono stati freddati dalle forze dell’ordine in un contesto di grande tensione sociale. D’altronde, dopo una settimana di scioperi, negoziati fallimentari sull’adeguamento alle magre retribuzioni salariali e scontri a non finire che erano già costati la vita a dieci persone, tra cui due poliziotti, il 16 agosto scadeva l’ultimatum ai 3mila minatori in sciopero: tornare al lavoro sottoterra o essere licenziati. Sta di fatto che poi la polizia ha sparato utilizzando armi leggere convenzionali ed è stata una strage sulla quale la classe dirigente sudafricana dovrebbe seriamente interrogarsi. Anzitutto per la pessima figura dei dirigenti dell’African National Congress (Anc), il partito del presidente Jacob Zuma, metafora ideale del cambiamento “Afro”! Ed è questo il punto sul quale forse varrebbe la pena riflettere, nella consapevolezza che le sfide sociali, per quella che fino a pochi anni fa era la patria del segregazionismo razziale, sono oggi più che mai evidenti. Il Sudafrica in effetti – basta consultare un manuale aggiornato di geografia economica per rendersene conto – potrebbe esprimere livelli di benessere pari, se non addirittura superiori, agli standard occidentali, ma è ancora ostaggio del proprio passato coloniale. In sostanza, il tanto agognato “Rinascimento africano” che doveva caratterizzare la svolta del “post-apartheid” non ha ancora generato quei risultati promessi sia dal “Padre della Patria”, Nelson Mandela, che dal suo successore, l’ex presidente, Thabo Mbeki e dall’attuale capo di Stato Zuma. Per carità, è già stato un miracolo che sia stata scongiurata la guerra civile nel momento in cui avveniva il tracollo del regime razzista. Infatti, l’odioso regime di Pretoria uscì di scena senza che vi fossero inutili spargimenti di sangue. Era un giorno limpido di fine estate nell’emisfero australe quell’11 febbraio del 1990 quando dal cancello del penitenziario di Victor Vester, vicino Città del Capo, usciva dopo 27 anni il detenuto politico numero “46664”. All’anagrafe risultava “Rolihlahla Dalibhunga”, per tutti Mandela, detto anche “Madiba”, come viene solitamente chiamato dalla gente con riferimento al suo clan. A dare l’ordine di liberarlo era stato Frederik Willem de Klerk, l’ultimo presidente bianco del Sudafrica e premio Nobel per la pace con Mandela nel 1993. Certamente va affidato alla storia il giudizio sugli esiti della “Commissione per la Verità e la Riconciliazione” voluta proprio da Mandela e presieduta dal vescovo anglicano e premio Nobel per la Pace, Desmond Tutu. La consapevolezza è che i cinque volumi di rapporto costati due anni e mezzo d’indagini, oltre a ventimila testimonianze e centinaia e centinaia di audizioni siano serviti quantomeno, sul piano umano, ad innescare un processo di cicatrizzazione perché le ferite causate dall’odio razziale possano lentamente rimarginarsi. Sta di fatto che sebbene siano trascorsi due decenni dalla liberazione di Mandela, il cammino per l’affermazione del “Bene Comune” è ancora tutto in salita se si pensa alla drammatica carneficina di Marikana. A preoccupare gli analisti – a parte il populismo di Zuma che si è detto “scioccato dalla violenza insensata di giovedì” – è il crescente deterioramento in corso da anni all’interno dell’Anc, incapace di integrare le varie anime di un partito la cui leadership sembra essere sempre più lontana dai problemi reali della gente, minatori in primis. Una cosa è certa: la vera scommessa, guardando al futuro, consisterà innanzitutto e soprattutto nel ridurre la forbice tra i ceti ricchi e quelli meno abbienti che comunque rappresentano ancora la stragrande maggioranza della popolazione. Va infatti ricordato che a tutt’oggi la distribuzione del reddito in Sudafrica è considerata in assoluto tra le più inique del mondo. Da questo punto di vista, le Chiese Cristiane si stanno impegnando nel risanamento del tessuto sociale. Una sorta di “solidarietà critica” – termine tecnico adottato dal Consiglio Ecumenico delle Chiese del Sudafrica (Sacc) – di pieno appoggio alle iniziative politiche sociali non in contrasto con i fondamentali valori umani e cristiani.
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