Volontariato

Sud, un’idea per il dopo Fiat

Fare del meridione un distretto dell’economia civile. Puntando su valorizzazione del territorio e cura della persona. Gli studiosi ne discutono

di Giampaolo Cerri

I soldi per salvare la Fiat? Usiamoli per costruire un distretto di economia civile. Una provocazione? Forse. Un esercizio di fantaeconomia? Può darsi. Ma a pagina 17 un protagonista della cooperazione sociale nel Mezzogiorno, Sergio D?Angelo, ci dice che con questa pioggia di milioni potrebbero nascere al Sud almeno 500mila posti di lavoro. E allora gli interrogativi diventano tutt?altro che peregrini. Perché mai le due uniche alternative praticabili dovrebbero essere l?intervento statale o la svendita alla General Motors? E se facessimo della finanza autenticamente creativa, cominciando da Termini Imerese? New deal alla siciliana? Un piccolo new deal siciliano, dove il danaro che viene da Roma serva per fare start-up sociali, incubatori, a finanziare contratti d?area che puntino a creare ex novo e a rafforzare l?economia sociale. Un piccolo-grande laboratorio per la costituenda impresa non profit. Insomma il Terzo settore, fra Stato e General Motors. Una provocazione che parte da alcune cifre. Quelle avanzate dall?economista Tito Boeri. Sul suo portale www.lavoce.info, ragiona sugli ammortizzatori sociali: «In uno stabilimento con manodopera relativamente giovane, il costo potrebbe essere superiore ai 225 milioni di euro». E se si contano altri mille lavoratori dell?indotto, «con salari più bassi, ma anche più giovani», si aggiungerebbero almeno altri 150 milioni di euro. Il totale, 375 milioni di euro, corrisponde a 700 miliardi di vecchie lire. La scommessa ha i suoi numeri. Ma è ragionevole? Lo abbiamo chiesto a Gianfranco Viesti, docente di Politica economica all?Università di Bari. Non ne è affatto scandalizzato. Di reindustrializzazione, di interventi sul territorio se ne intende, tanto che fa parte del board scientifico di Italia lavoro, la società governativa che si occupa di politiche attive per l?occupazione. «La nostra tradizione è pessima», dice, «abbiamo una storia di interventi tampone: Gepi, Eni Sud, Partecipazioni statali, da Brindisi a Gela l?obiettivo è stato tamponare l?emergenza sociale. È sempre mancata una strategia di sviluppo, limitandosi a sostituire o ad aggiornare un modello». Il peccato originale Interventi sempre a carico delle finanze pubbliche «perché le imprese non li hanno nel dna». Anche l?esperienza dei contratti d?area, «che pure rappresenta un piccolo passo in questa direzione», è viziata: consiste troppo spesso solamente in massicce iniezione di fondi pubblici per generare occupazione nel breve periodo. E l?esempio virtuoso di Manfredonia, in provincia di Foggia, chiediamo, dove si è reindustralizzata l?area Eni? «Fra dieci anni, purtroppo, avremo al pettine nodi anche peggiori». Il peccato originale, spiega il professore, è che la reindustrializzazione «parte dalla fabbrica anziché dal territorio». herebbe, in Sicilia, prendere in esame risorse rilevanti, come «ambiente, cultura, capitale umano», immaginare altro e non semplicemente «sostituire uno stabilimento da 1.800 persone con tre da 600». Idea numero uno: la gestione del territorio e del turismo. «Siamo vicini a Palermo, attrattore fenomenale negli ultimi dieci anni di visitatori», dice. «Una chance per profit e non profit», sottolinea. Le imprese sociali potrebbero occuparsi di «manutenzione e gestione dei siti archeologici, museali, dell?utilizzo del territorio e del paesaggio. Un esempio? Smantellare le discariche abusive». Il modello Florida Seconda area, servizi alla persona, «di cui l?isola è comunque sottodotata: assistenza, sanità, formazione». Ancora esempi. «Negli Usa assistiamo a una popolazione anziana che migra verso il Sud, in Florida: chi ci vieta di pensare qualcosa del genere per la Sicilia?», dice Viesti che ammette «ragioni culturali, di legalità, relazionali che ?militano? contro questa ipotesi». Ma perché non provare? Certo pompare danaro pubblico è più semplice e più tranquillizzante per la politica locale e nazionale. «Perché non pensare a un distretto del benessere intorno a strutture di eccellenza come l?Istituto mediterraneo di trapianti di Palermo?», rilancia il professore. «Perché non provare a fare nella sanità e nella cura, una Catania bis, dove si è costituito un distretto industriale legato all?information technology?». Attività capaci di generare indotto. «Pensiamo alla formazione», dice, ««può far nascere produzione di supporti multimediali. Insomma non siamo nel deserto del Sahara: a Palermo c?è Sellerio». Giacomo Becattini, il massimo studioso dei distretti industriali è scettico. «Un distretto è una macchina capitalistica che si regge sul mercato facendo profitti e reinvestendoli: se lei mi leva proprio questo elemento, naturalmente non mi funziona più». Ma i distretti non servono anche la comunità locale? «Con tutte le qualità di solidarietà e di identificazione con l?interesse collettivo che ci possono essere nei distretti, tutto questo si mantiene solo se produce un?efficienza differenziale nel processo produttivo, quindi la via del non profit è una via che non discuto in tesi generale ma che con riferimento al distretto non tiene». E spiega : «Il distretto è una manifestazione di economia capitalistica: il non profit ci sta stretto». Lo storico dell?economia Pietro Cafaro, non storce il naso. «L?utopia può essere praticata, è un dovere etico», risponde, «e farsi promotore dello sviluppo di un ambiente attraverso leve che non sono solo quelle del mercato è un?operazione tutta culturale». Dopo tutto, osserva, anche l?industrializzazione italiana è avvenuta come «utopia non immaginabile»: tutte le politiche postunitarie e anche poi fasciste «andavano nella direzione di un potenziamento dell?agricoltura, rilevando che l?Italia ha scarsità di materie prime». Non entra nel merito tecnico, «sono uno storico» dice, ma «la creazione di un soggetto che colloqui con il mercato caratterizzandosi per la partecipazione dei lavoratori, potrebbe avere il valore di invertire una tendenza: quella che ha sempre prodotto modelli di impresa dove il lavoro è marginale». L?Italia non ha mai avuto, ricorda, le public company presenti invece in molte altre realtà internazionali. Utopia praticabile Cita Mario Romani, Sergio Zaninelli, il personalismo cristiano, la valorizzazione della risorsa uomo nei processi economici. «La modernizzazione in Italia è avvenuta sopra le teste delle persone», osserva, «gli industriali hanno tradotto il lavoro in sudditanza, cioè come merce. All?opposto, certo sindacalismo ha predicato il massimalismo: il lavoro nemico». Un?ipotesi non profit per la crisi al Sud potrebbe esser chance per questa utopia, «oggi realizzata solo nelle cooperazione e, in parte, nella piccola impresa, capaci di stare sul mercato ma con il gusto di un soggetto diverso, partecipato». Insieme ai milioni di danaro pubblico, in gioco c?è anche questa utopia. E forse vale di più. Maroni «L?intervento degli ammortizzatori sociali sarà l?ultimo atto di una complessa trattativa tra le parti e dipenderà dalle prospettive di sviluppo industriale che verranno prospettate dall?azienda». Il ministro Maroni ha smentito le cifre esposte da Boeri e il ricorso alla mobilità lunga. «Solo quando sarà definito un solido e pluriennale piano industriale diverrà possibile valutare forme, modalità e tipologie degli interventi».


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