Mondo

Sud Sudan, ora la vera sfida è fare lo “Stato”

di Giulio Albanese

Fa piacere sapere che il  referendum per sancire l’autodeter­minazione del Sud Sudan è stato un successo, soprattutto se si considerano i timori della vigilia. Anzitutto, va riconosciuto il funzionamento della macchina elettorale, sia per quanto concerne la logistica, sia per la sicurezza. Non è un caso se la responsabile della missione di monitoraggio dell’Unione Europea, Veronique de Keyser, ha definito il referendum con due aggettivi emblematici: “credibile e pacifico”. Per non parlare della partecipazione degli aventi diritto, che è andata ben oltre il quorum richiesto del 60%, attestandosi attorno all’80% dei votanti. A questo punto non resta che attendere la pubblicazione ufficiale dei risultati, prevista tra meno di un mese, anche se è evidente che il risultato è ormai scontato. Mentre scriviamo, i dati parziali che si riferiscono a sette dei dieci Stati sud sudanesi indicano che la maggioranza per il sì alla secessione sarebbe addirittura superiore al 90 per cento. D’altronde, la stragrande maggioranza della popolazione sud sudanese, che ha sperimentato per lunghi anni le conseguenze della sanguinosa guerra civile, ha deciso di voltare pagina, optando per l’indipendenza dal Nord. Ma non è oro tutto quello che luccica perché, nel momento in cui verrà sancita la secessione, si tratterrà di creare uno nuovo “Stato”. Non solo in termini amministrativi e infrastrutturali, ma anche e soprattutto politicamente. Il rischio, sempre in agguato, è che le formazioni partitiche del Sud, col tempo, assumano sempre più una connotazione etnica. Al momento, il vero collante è costituito dagli ex ribelli dell’Esercito di liberazione popolare del Sudan (Spla) che per sei anni, durante la fase di transizione prevista dagli accordi di pace, hanno amministrato le regioni meridionali attraverso il braccio politico del loro movimento, il Mpla. Una realtà estremamente complessa e articolata, caratterizzata comunque da una gerarchia piramidale, al cui interno sono rappresentate, forse con qualche discrimine, piccole e grandi etnie, dai Denka ai Nuer, dagli Shilluk ai Toposa. E la pacifica convivenza di queste componenti dipenderà dalla capacità di gestire equamente gli aiuti che la comunità internazionale si è impegnata ad elargire e gli investimenti delle compagnie straniere. Il pericolo è che si metta a repentaglio la credibilità della nascente nazione sud sudanese, la quale dovrà pesto misurarsi con Khartum per risolvere la situazione nella regione petrolifera di Abyei, dove si continua a morire. Vi è poi un’altra scottante questione che riguarda non solo il Sudan, ma l’intero scacchiere geopolitico del fiume Nilo: per citare i più importanti, dall’Egitto all’Etiopia, dall’Uganda all’ex Zaire. La separazione dei territori sud sudanesi dal Nord, infatti, riaccenderà il confronto politico e militare sulla gestione delle acque del grande fiume, ormai insufficienti per le richieste di tutti i Paesi bagnati dal suo corso. Il che significa, in sostanza, non solo un nuovo fronte di “lotta per il pane”, ma anche una competizione per il controllo del bacino idrografico a fini energetici. A questo proposito, la nascente Repubblica sud sudanese potrebbe subire gli effetti delle proteste, avvenute in questi giorni, dei ceti meno abbienti del Nord, ma anche l’intensificarsi del flusso migratorio, verso meridione, delle popolazioni nilotiche, animiste e cristiane, che saranno considerate, a questo punto, “straniere” dal governo di Khartoum. Vi è infine il timore che il nuovo corso sud sudanese possa, prima o poi, penalizzare le Chiese cristiane nel Nord. Fonti riservate vicine al presidente el-Bashir non escludono l’intenzione, da parte del regime, di espellere i membri stranieri delle Chiese cristiane, come è già avvenuto nella vicina Eritrea. Si tratta di una voce, ma la diplomazia internazionale deve vigilare, perché il pretesto della nascita di uno Stato nel Sud non diventi ignobile “arma di ricatto” nelle mani dell’oligarchia fondamentalista di Khartoum.

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