Mondo

Sud Sudan: il vizio della guerra

di Giulio Albanese

Come potranno immaginare i lettori di questo Blog, le notizie che vengono dal Sud Sudan sono davvero allarmanti, per non dire sconsolanti. Il fatto che si sia generata una spaccatura all’interno della classe dirigente locale, addirittura violenta nelle sue manifestazioni, con morti e feriti, la dice lunga. Erano in molti a credere, come già scrissi su queste pagine digitali, che la nascita della Repubblica Sudsudanese, sancita ufficialmente il 9 luglio del 2011 a seguito di una consultazione referendaria, rappresentasse una tappa fondamentale nel processo di riconciliazione tra Nord e Sud Sudan. In particolare, questo evento era visto come un segnale forte di stabilizzazione in uno degli scacchieri africani ad alto tasso di conflittualità. Sta di fatto che, nonostante gli altisonanti proclami delle cancellerie di mezzo mondo, il 54mo Stato africano non è venuto alla luce sotto i migliori auspici, come qualcuno voleva far credere. In effetti, per quanto la pressione internazionale fosse altissima sia sul governo di Khartoum che sugli ex ribelli dell’Esercito di Liberazione Popolare del Sudan (Spla), affinché si concretizzasse un accordo finalizzato all’autodeterminazione delle regioni meridionali del Paese, è stata, per così dire, sovrastimata la capacità di fare politica da parte della nomenclatura sudista. Si trattava, d’altronde, di creare, partendo praticamente da zero, un sistema statuale, sia in termini politico-amministrativi che economici e infrastrutturali.

A parte il rischio che le formazioni partitiche del Sud, col tempo, assumessero sempre più una connotazione etnica, il vero collante era e rimane – anche se traballante dopo il tentativo di golpe di questi giorni – quello degli ex ribelli che per sei anni, durante la fase di transizione prevista dagli accordi di Nairobi del 2005, ha amministrato le regioni meridionali attraverso il braccio politico del loro movimento, lo Mpla. Questi signori si sono trovati a gestire un “sistema Paese” senza che fossero ancora definite, una volta per tutte, le regole del gioco: non solo la delicatissima questione della gestione dei proventi dell’oro nero, ma anche e soprattutto la controversia per la delimitazione dei confini col regime nordsudanese. In sostanza, il presidente Salva Kiir, la cui poltrona è sempre più traballante dopo i sanguinosi avvenimenti di questi giorni, si è trovato a fare i conti con interlocutori che, sia a livello nazionale che internazionale, guardavano solo e unicamente ai propri interessi di parte. La scelta della pace, si sapeva in partenza, era certamente la via più difficile, ma l’unica che potesse garantire prosperità e stabilità ad una popolazione multietnica e multireligiosa stremata dai lunghi anni di guerra civile con il Nord. Ed è per questo motivo che tutti, ma davvero tutti, dovrebbero avere l’ardire di operare un sano esame di coscienza. Anche cinesi e americani che da quelle parti hanno ostentato, in riferimento al business degli idrocarburi, un’etica prevalentemente utilitaristica, anteponendo i loro interessi particolari a quelli della società civile dei due Sudan. È per questo motivo che è altamente fuorviante pensare che la crisi sudsudanese sia da attribuire esclusivamente all’ancestrale riottosità tra le piccole e grandi etnie del Sud Sudan: tra Denka e Nuer, tra Shilluk e Toposa…

Dietro le quinte vi sono i soliti istigatori di sempre che, paradossalmente, indebolendo lo stato di diritto a Juba e dintorni, stanno facendo il gioco del nemico di sempre, il governo di Khartoum. Fautore della sharìa (la legge islamica), il regime islamico ha sempre visto gli ex ribelli sudisti come il fumo negli occhi. Va ricordato che, in passato, i nordsudanesi hanno più volte generato divisioni all’interno della ribellione sudista, secondo la logica del divide et impera. In questo momento, nessuno ha tra le mani una sfera di cristallo per prevedere i futuri sviluppi di uno scenario a dir poco incandescente. Ecco perché la comunità internazionale non può permettersi di stare alla finestra a guardare. Sarebbe davvero un peccato, contro Dio e contro l’uomo, se tanti anni di difficile negoziato tra Nord e Sud, fossero compromessi dall’ingordigia di chi guarda solo e unicamente al dato macroeconomico. Come soleva ripetere monsignor Cesare Mazzolari, compianto vescovo di Rumbek, “il futuro del Sud Sudan si costruisce investendo sulla formazione delle coscienze, prim’ancora che sugli impianti petroliferi o sugli oleodotti”.

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