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Studiare in Palestina. L’educazione nel Paese della separazione
Muri, filo spinato, checkpoint: in Palestina le barriere sono molteplici e gli studenti sono le prime vittime. Viaggio nelle 27 scuole Palestinesi dove AVSI e Terre des Hommes lavorano per garantire a tutti un’educazione davvero inclusiva.
Gerusalemme – Le dita di Hanin si muovono lentamente sulle corde del suo oud. Preme il plettro con forza, quasi con fatica, mentre si sporge in avanti per riuscire a guardare i tasti di questa enorme specie di chitarra. Il suono, sordo, rimbomba nell'aula bianca e spoglia. I bambini, seduti in cerchio intorno all’insegnante, iniziano a cantare. La stanza, improvvisamente, si riempie
Sono due anni che Hanin insegna musica nella scuola di Gerico, la sua città. Diplomata al conservatorio di Gerusalemme, ha iniziato insegnare ai bambini delle elementari con l'obiettivo di conciliare la sua passione, la musica, con la voglia di dare una mano alla comunità in cui è nata e cresciuta. "La musica è lo strumento migliore per insegnare a chi ha difficoltà di apprendimento", dice l’insegnante. "È questo il mio ruolo qui: contribuire a includere nel sistema educativo chi, per qualsiasi motivo, ne è escluso".
L’educazione di qualità deve essere per tutti. Lo afferma, con forza, il quarto dei diciassette obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs, dal suo acronimo inglese) promossi dalle Nazioni Unite per il 2030. Ed è un principio alla base di un progetto di educazione inclusiva realizzato dalle ong Fondazione AVSI e Terre des Hommes in Palestina, grazie a un finanziamento della Cooperazione italiana.
“Qui i bambini nascono, crescono e vivono con un concetto sempre presente: quello della separazione. A scandire ogni momento della vita c’è sempre un muro, un filo spinato, barriere fisiche e mentali spesso insormontabili. E il sistema scolastico ne è la prima vittima”, spiega Anna Difonzo, responsabile delle attività di Fondazione AVSI in Palestina.
Il progetto finanziato dal Governo italiano si concluderà a luglio, dopo un lavoro durato tre anni e che è stato svolto insieme agli studenti, i genitori e gli insegnanti. Ventisette scuole, pubbliche e private, sono state coinvolte per un totale di oltre 5mila studenti e 780 insegnanti. Nuovi metodi di insegnamento, corsi di formazione per i docenti e attività extracurriculari hanno avuto l’obiettivo di restituire valore al concetto di “diversità”. Anche nelle scuole della Palestina.
La classe di Hanin
Con Hanin siamo a Gerico, uno dei primissimi insediamenti umani della storia a essere ancora abitato. Sprofondato oltre duecento metri sotto il livello del mare, in piena "area a": quella che gli accordi di Oslo 2 del 1995 hanno affidato al controllo dell'Autorità nazionale palestinese (ANP). Più precisamente, siamo negli edifici di Sira, una scuola privata gestita da un’associazione svedese con l’obiettivo di portare servizi educativi di qualità ai ragazzi della città. E per dare accesso all’educazione a quanti più bambini è possibile.
“In estate, la mia classe parteciperà a un concorso nazionale a Ramallah. Porteranno un paio di canzoni che i bambini hanno provato e riprovato nel corso di tutto l'anno”, ci spiega Hanin. L'obiettivo sarà quello di ottenere un buon piazzamento, ma già riuscire ad esserci è un grande risultato.
“Prima di iniziare le lezioni di musica – racconta – i miei alunni facevano fatica anche soltanto a parlare”. Povertà, difficoltà di apprendimento, trasferimenti forzati, situazioni familiari complicate, la semplice timidezza. Sono tutti fattori che per un bambino possono essere alla base di una condizione di esclusione, sia educativa che sociale. E una barriera alla sua crescita. “Con il tempo, però, cominciano a vedersi i primi risultati. I ragazzi diventano più sicuri dei loro mezzi, determinati, migliorano le loro capacità di apprendimento”.
Hanin si gira, ci indica una bambina di sette anni dalla lunghe trecce. Si chiama Rimas e all’inizio dell’anno non parlava con nessuno. Di cantare, poi, non ne voleva proprio sapere. “Ora ride e scherza con le sue compagne. E sì, la musica l’ha resa davvero più felice”.
I muri di Gerusalemme
A Gerusalemme, le barriere all’accesso che separano gli studenti da un’educazione di qualità non sono soltanto psicologiche. A partire dagli anni 2000, un grande muro di cemento divide in due la città – separa anche tutta la West Bank da Israele, lungo la linea verde – e per chi si trova dal lato orientale è ogni giorno un'impresa riuscire attraversarlo.
Sheikh Saad, un villaggio di poco più di 3mila abitanti abbarbicato su di un colle a Gerusalemme Est, ne è l’esempio più lampante. Sheikh Saad è isolato a causa del muro: un unico check point collega il paese con Gerusalemme ed è soltanto pedonale. A qualche centinaio di abitanti a ridosso della barriera è permesso attraversare il varco in entrambe le direzioni, per tutti gli altri il ritorno a Gerusalemme è possibile solo aggirandolo. Il che vuol dire percorrere oltre quaranta chilometri attorno alla città: un'ora di macchina, quando il traffico è clemente. Non va meglio a chi arriva dalla West Bank: soltanto due strade portano in cima al villaggio, così ripide e tortuose che gli autobus pubblici hanno rinunciato da tempo a percorrerle.
Con i loro zainetti colorati in spalla, tutte le mattine, decine di studenti attraversano il check point per andare a scuola. "Per loro l'isolamento è un’enorme problema”, ci spiega Hayfa Eiwesat, preside della scuola femminile di Sheikh Saad. Gli studenti non hanno accesso al resto della comunità di Gerusalemme, tutta la loro vita è confinata all’interno del quartiere”. A tutto ciò si aggiungono problemi comuni a quelli di tutte le altre scuole della Palestina e che hanno a che vedere con l’inclusione degli studenti più in difficoltà.
“Le attività svolte grazie al progetto di AVSI e Terre des Hommes – spiega un’insegnante della scuola – ci hanno permesso di ottenere risultati incoraggianti, nonostante le condizioni ambientali. Sia in termini di risultati scolastici, sia comportamentali. Risultati così evidenti che i genitori sono stati i primi ad accorgersene”.
Poco più a nord c'è il villaggio di Zayeem, che come Sheikh Saad si trova a fare i conti con la questione dell'isolamento. In misura se possibile peggiore: dagli abitanti di Gerusalemme, Zayeem è definita "terra di nessuno", perché qui anche i servizi più basilari, dai mezzi pubblici allo smaltimento dei rifiuti, scarseggiano. E mancano soprattutto le scuole: la Rawda Hadithe School è l’unica presente, aperta soltanto nel 2006.
Anche a Zayeem gran parte degli studenti deve attraversare il muro che divide la città. Per chi proviene dal Monte degli ulivi c’è un unico cancello, con una particolarità ulteriore: chiude alle 8 di mattina e nessun ritardo è tollerato. Per chi non arriva in tempo, l’unica soluzione è tornare a casa e saltare un giorno di scuola.
A Zayeem, AVSI e Terre des Hommes hanno lavorato per formare gli insegnanti e per rendere possibili alcune attività specifiche, pensate per favorire un più ampio accesso a un’educazione di qualità. “Gran parte dei bambini sono in grado di capire perfettamente le lezioni, ma hanno grosse difficoltà ad esprimersi, spiega Hiba, una delle insegnanti della Rawda Hadithe. Cerchiamo di aiutarli con il gioco, utilizzando modi diversi e divertenti per spiegare i concetti”. E le differenze, negli ultimi tre anni di lavoro, si vedono. “Mia figlia è migliorata molto, sia nella lettura che nella scrittura. Ora ha una personalità più forte ed è più sicura di sé”, ci dice Manal, una delle mamme di Zayeem.
In fuga da Gerusalemme
Per tornare a Gerico da Betlemme ci sono due modi. Si può viaggiare verso nord, fino a Gerusalemme, per poi scendere a est verso il Mar Morto, lungo una delle autostrade che Israele ha costruito per collegare in sicurezza gli insediamenti all’interno della West Bank – e che corre ai fianchi di Ma'ale Adumim, uno dei quattro "settlement" più popolosi. Oppure, si può tagliare attraverso una miriade di piccoli villaggi palestinesi, lungo una strada statale stretta, tortuosa e sconnessa, che però ha il vantaggio di farti guadagnare una manciata di minuti di viaggio.
Da qualsiasi parte si arrivi, però, ad accogliervi a Gerico ci saranno sempre: terra rossa e brulla, palme a perdita d'occhio, un pigro checkpoint dell'esercito palestinese, un'afa inevitabile qui, duecento metri al di sotto del livello del mare, e polvere dappertutto. Un colpo d’occhio tanto mozzafiato quanto inospitale.
“Il primo giorno a Gerico è stato un incubo”, racconta Lamia nella sua uniforme di scuola, una polo e una felpa grigie ricamate di giallo con le iniziali della Terra Santa School (numero 9 nella mappa). “Mi sono sentita straniera qui. Ero spaventata, volevo tornare a casa, a Gerusalemme”.
Lamia ha quattordici anni e la sua famiglia si è trasferita a Gerico ormai un anno fa. Sono andati via quando le tensioni tra israeliani e palestinesi in città sono sfociate in quella che è stata ribattezzata “intifada dei coltelli”: agguati all’arma bianca ai danni di israeliani, spesso civili, reazioni violente da parte della polizia di frontiera israeliana nei confronti della comunità palestinese. “C’erano tensioni anche nel quartiere della mia scuola. Una mattina un mio compagno di classe è rimasto ferito mentre tornava a casa. È stato allora che i miei hanno deciso di partire: Gerusalemme era diventata troppo pericolosa e io ho dovuto abbandonare tutte le mie amicizie”.
“Le difficoltà di Lamia si sono fatte subito evidenti a scuola”, racconta don Mario, il direttore della Terra Santa School, l’istituto che ha accolto la ragazza dopo il trasferimento. “Voti bassi e scarso rendimento mostravano tutto il suo disagio. Ma sono convinto che l’ambiente scolastico che ha trovato qui sia stato fondamentale per il suo inserimento”.
La pietra bianca dell’edificio della Terra Santa School di Gerico si erge maestosa nel cuore della città. È un punto di riferimento nella regione. È una scuola cattolica, ma i suoi studenti sono in gran parte musulmani. L’unico istituto di Gerico con classi miste, ragazzi e ragazze in classe insieme: “È un esempio reale di come la diversità può diventare un valore. Studenti di ogni estrazione culturale e sociale qui possono esprimere tutte le loro capacità”, ci dice don Mario.
Insegnanti e genitori
“Non sono più la stessa”, ci dice entusiasta Odet nel cortile della Terra Santa School di Betlemme, dove studia suo figlio. Ci accompagna nella stanza delle riunioni, un’ampia sala sovrastata da due enormi lampadari che sembrano provenire da un'altra epoca. “Oggi sono più tranquilla, a mio agio nel rapporto con mio figlio”, ci spiega mentre prende posto di fianco al lungo tavolo marrone e lucidissimo che domina la stanza. Tira fuori una penna e un quaderno per gli appunti. “Qui al corso ho conosciuto tante mamme, ci siamo raccontate le nostre difficoltà, le aspettative per i nostri figli. E abbiamo imparato tanto”.
Quando l’incontro inizia, una decina di mamme ha raggiunto Odet nella sala. Il formatore accende il proiettore e fa partire un cortometraggio. Uno dei tanti strumenti utilizzati nei workshop che negli ultimi tre anni si sono posti l’obiettivo di sensibilizzare i genitori delle scuole coinvolte nel progetto. “Ma la cosa più importante è il dialogo, al di là di qualsiasi strumento di formazione”, ci dirà alla fine Hani, il trainer. “Ascoltare quali sono le difficoltà e i dubbi dei genitori è il primo passo. Non insegniamo loro nulla, ma lavoriamo insieme per dare alle mamme una maggiore consapevolezza dei loro mezzi”.
“La tecnologia non è di per sé una soluzione”, gli fa eco Bilal, un altro formatore che ha il compito di spiegare agli insegnanti come usare le lavagne interattive che sono state introdotte in molte scuole. “Ma può essere uno strumento per migliorare l’insegnamento”.
A metà il corso si interrompe: irrompe una classe di ragazzi rumorosissimi e ognuno con una rosa in mano. Arrivano dal piano di sopra, dove ci sono le classi. Con i loro insegnanti hanno organizzato una sorpresa per le loro mamme. Un piccolo diversivo apprezzatissimo a giudicare dai sorrisi e la commozione.
Canto e danza per bambini con difficoltà auditive
Una parte importante del lavoro svolto per le scuole Palestinesi si rivolge ai bambini con difficoltà speciali. È il caso dei 165 bambini con difficoltà auditive di Effetà, la scuola di Betlemme che insegna loro a parlare e capire il labiale con lezioni specifiche, ma anche con attività complementari.
Per esempio, i ragazzi ballano la dabke, una danza tradizionale araba la cui pratica aiuta la coordinazione e la collaborazione. E lo stesso vale per i corsi di cucina e di canto, che incoraggia gli studenti a collaborare tra loro, a fare attività pratiche. “E alla fine li aiuta anche a parlare”, ci dice sicuro uno degli insegnati di Effetà.
Mohammed, che ha 15 anni, frequenta la Lifegate, una scuola speciale gestita da un’associazione tedesca a Betlemme per bambini e ragazzi con disabilità di vario tipo. Da piccolo ha avuto un incidente in macchina e da allora ha sviluppato alcune difficoltà psico-motorie. “Il mio sogno è diventare cuoco e aprire un ristorante”, ci dice Mohammed in completa uniforme da chef mentre esce dalla cucina di Lifegate.
Da qualche mese Mohammed segue un corso di cucina, preparato da uno chef professionista con ristoranti a Betlemme e Gerusalemme. “Ma faccio anche una carbonara fantastica”, ci assicura Ameer, il cui ruolo non è soltanto insegnare qualche ricetta, ma dar loro le basi per entrare nel mercato del lavoro. “Inizierò con i miei genitori – ci dice Mohammed –, hanno un piccolo ristorante e potrò aiutarli”.
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