Cultura

Stress terminale

Una ricerca svela cosa succede nei reparti di terapia intensiva

di Sara De Carli

Il mistero di ciò che accade nei reparti di terapia intensiva, là dove abita il confine tra la vita e la morte, è per la prima volta descritto in un studio scientifico, il Protocollo sulle decisioni di fine vita. Lo ha realizzato il GiViTi (Gruppo per la valutazione degli interventi in terapia intensiva) dell?Istituto Mario Negri, che raccoglie 311 unità di terapia intensiva, più della metà di quelle italiane: l?unica chiave per impostare con cognizione di causa il dibattito su accanimento terapeutico, testamento biologico ed eutanasia. Fin dove spingersi I numeri, nudi e crudi, destano qualche allarme. L?80% dei pazienti deceduti in terapia intensiva (2 ogni 10 pazienti accettati) non è in grado di decidere per sé e solo il 7% ha una dichiarazione anticipata di trattamento, anche se non sempre formale: si tratta di persone al termine di una malattia lunga, mentre il testamento biologico è sostanzialmente inesistente per chi arriva in rianimazione per colpa di un incidente, un trauma, un evento improvviso (la maggior parte). A decidere le cure, quindi, sono i medici. Quando una persona entra in terapia intensiva, l?équipe stende un piano di cure che include una prima prognosi del paziente, realizzata anche in base a modelli matematici che definiscono la probabilità di morte («modello che non utilizziamo per fare triage», precisa Guido Bertolini, il coordinatore del GiViTi) e una valutazione del ?fin dove spingersi con la terapia?. Bene: nel 90% dei casi questo piano di cure prevede di utilizzare tutti i trattamenti intensivi disponibili. «È un dato quasi scontato», spiega Bertolini. «Se un paziente è accettato in terapia intensiva è perché si vuole investire su di lui». Ma è il dato successivo a preoccupare: sembra la prova che nelle terapie intensive d?Italia si fa accanimento terapeutico. Il 60% dei pazienti deceduti in terapia intensiva muore avendo in atto il piano di cure ?full optional?, che prevede il ricorso a tutti i trattamenti intensivi disponibili. Nessun adeguamento del piano, nessuna limitazione dei trattamenti. Professor Bertolini, se non è accanimento terapeutico questo? Invece i numeri non bastano: «Non dico che in Italia l?accanimento terapeutico non esista, però non si può fare allarmismo. I dati lo dimostrano», continua. «Chi muore in terapia intensiva, nel 40% dei casi muore entro 48 ore dall?accettazione, un tempo troppo breve per verificare l?efficacia dei trattamenti e cambiare il piano di cure. La decisione di limitare le cure avviene più tardi, quando la prognosi infausta diventa evidente. Allora le garantisco che da parte dei medici c?è una grande preoccupazione a evitare cure inappropriate per eccesso. I dati sono appena un po? più bassi che nel resto del mondo, anche se alcuni confronti non hanno senso: negli Stati Uniti in terapia intensiva ci sono 50 posti letto e gente che mangia da sola, noi invece abbiamo 8 letti, occupati tutti da persone in coma». Non si muore di meno Quella della limitazione dei trattamenti è una decisione che varia da una terapia intensiva all?altra. Ma qui c?è una sorpresa. Dove si praticano limitazioni dei trattamenti intensivi, la mortalità dei pazienti non solo rimane nella media rispetto alla mortalità attesa, ma è leggermente inferiore. Detto altrimenti: dove non vengono praticate limitazioni di trattamenti, non muoiono meno pazienti. Muoiono dopo, probabilmente peggio e con un prolungamento inutile dell?agonia. «Il dato attesta che limitare i trattamenti non peggiora la qualità delle cure», spiega Bertolini. «La limitazione dei trattamenti è anzi dovuta ai pazienti, rientra nel rapporto di lealtà fra medico e paziente. La mortalità è addirittura leggermente inferiore alle attese perché la limitazione di trattamenti è un indicatore di attenzione, si fa là dove i medici sono più attenti al paziente, a tutti i livelli». Cosa si scala per primo? «Terapie la cui sottrazione non genera sofferenze ulteriori nel paziente, come la dialisi e i farmaci per il cuore. Quelle che non si tolgono quasi mai sono idratazione, alimentazione e ventilazione, benché nel paziente terminale è possibile uno svezzamento anche rispetto ad esse». Il problema legislativo Bertolini ci tiene a sottolineare ancora un dato. I casi in cui è più raro vedere limitazione dei trattamenti sono due: quando la famiglia è molto coinvolta e si oppone o – al contrario – quando la famiglia è assente. «Questi numeri sfatano il mito che i medici fanno ciò che vogliono in assenza del controllo dei famigliari. In realtà in Italia chi ha più bisogno di tutele è il medico, non il paziente. Il medico oggi è un bersaglio facile, ed è condizionato da un dibattito non sereno. Prima di tutto bisogna dire con estrema chiarezza che la limitazione delle cure, la ?desistenza terapeutica? è altro dall?eutanasia, non c?entra niente. Mentre per quanto riguarda la legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, non risolve tutti i problemi, ma può aiutare. Spero che quantomeno avvenga ciò che è successo con la legge per la donazione degli organi: è ancora una scelta delicata e difficile, ma dopo la legge, almeno, si è iniziato a parlarne in modo più maturo e articolato, al di là degli steccati». Info: i numeri e la ricerca


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