Migrazioni

L’istinto di salvare altre vite in mare non conosce protocolli

Sembra che siano passati pochi giorni, tanto vivo e profondo è ancora oggi il dolore provocato dal naufragio del 3 ottobre 2013, quando il mare al largo di Lampedusa divenne teatro di uno dei più gravi naufragi nel Mediterraneo. In tutto 368 morti, 155 superstiti, 41 dei quali minori. A distanza di dieci anni esatti Vito Fiorino, il primo pescatore che arrivò a prestare soccorso, ricorda ancora il terrore sul volto di coloro che avevano visto per la prima volta in questa occasione il mare ed erano ormai certi che non avrebbe mai avuto un futuro

di Gilda Sciortino

Ancora oggi, se torna indietro nel tempo, a quella notte di dieci anni fa, Vito Fiorino sente ancora le urla strazianti di chi chiedeva alla vita un’altra possibilità. Lui, il primo pescatore che arrivò sul posto riuscendo a salvare 47 vite. Una testimonianza di memoria viva, la sua, rivolta anche e soprattutto ai più giovani che incontra quasi quotidianamente.

Dopo il 3 ottobre del 2013 il mare lo guardo sempre con amore, ma non lo voglio più toccare.

– Vito Fiorino, pescatore di Lampedusa
Vito Fiorino (foto Elena Benfante)

«La morte, in quella notte del 3 ottobre, non doveva essere presente »,–  racconta Fiorino -,  «così come io non avrei mai dovuto trovarmi neanche a Lampedusa. Il destino ha voluto che arrivassi in questa isola nel luglio del 2000. Nello stesso momento in cui vi ho messo piede, qualcosa è cambiato in me. Avevo una grande azienda, tanti collaboratori, ma quel viaggio a Lampedusa, dopo aver girato il mondo, è stato fatale. In pochi mesi, da luglio a dicembre di quell’anno, decisi di cessare la mia attività e di trasferirmi qui, senza sapere perché. Ancora oggi tante persone, tanti studenti, mi chiedono cosa mi abbia portato in quest’isola e io rispondo che non lo so. Ma non lo so veramente, probabilmente è stata l’accoglienza dei lampedusani, non ho idea. Ho abbandonato il lavoro a Milano quando tutto pensavano che avevo trovato l’amore, una compagna; in effetti la compagna c’era, ma si chiamava Lampedusa. Le mie ceneri rimarranno qui perché mi sento incastonato in questa isola, non riesco più ad andare via.  La mia nuova vita è cominciata aiutando chiunque avesse qualcosa da sistemare a casa, un mobile, un armadio. È qui che ho scoperto il baratto perché, quando andavo ad aggiustare qualcosa, arrivava un amico e mi portava una cassetta di pesce. Questo ritengo faccia parte dei veri valori della vita. Ho, quindi, acquistato un’imbarcazione abbandonata, che non serviva più a nessuno. L’avevano battezzata “Nuova Speranza”. Al momento non mi diceva niente, poi invece questa “nuova speranza” l‘ha data a parecchie persone. Dopo quanto accaduto quella notte, però, il mare lo guardo, ma non lo voglio più toccare».

Il dolore sempre vivo dieci anni dopo dalla strage (foto Melania Messina)

Quella notte la luna non c’era. C’era solo tanto buio.

«Quella mattina del 2 ottobre ero al bar a fare colazione ci i miei amici. “Usciamo stasera, Vito?”. Ognuno di noi aveva un’attività commerciale, potevamo organizzare questi momenti solo a fine stagione, non certo ad agosto quando lavoravamo anche sino alle 3 del mattino. Nel pomeriggio il mare salta, alcuni di noi avevano degli impegni, ma a mezzanotte squilla il telefono: «Siamo al porto che ti aspettiamo». Così usciamo, facciamo anche il bagno, quando a un certo punto si fanno le 3.30 del mattino. Sistemiamo un po’ le cose che stavano in giro perché dovevamo rientrare. «Ma se ci fermiamo a dormire qui questa notte? ». In tanti anni che uscivamo non era mai successo ma, non avendo nessuno di noi impegni o problemi, decidiamo di rimanere, ripromettendoci di svegliarci non più tardi delle 6.30. Vado, così, a dormire sotto coperta, ascoltando il suono del motore della Gamar, il nome che diedi alla “Nuova Speranza”, molto semplicemente le iniziali dei nomi di Gabriel e Martina, i miei nipoti. Ho poi saputo che in arabo vuol dire luna, ma quella notte la luna non c’era, c’era solo buio, c’era solo la Gamar».

A un certo punto l’imbarcazione si ferma, non va più.

«Corro in cabina di pilotaggio e chiedo ad Alessandro cosa fosse successo e lui mi dice ”Zittoti zittoti, ma tu non lo senti questo vuciare?”.  Io non sentivo niente, c’erano solo gabbiani intorno a me, ma gli dico: «Metti in moto e va verso queste voci ». Non facciamo neanche 800 metri di navigazione in mezzo al buio e, all’improvviso, davanti a noi uno scenario terrificante: almeno 200 persone galleggiavano e chiedevano aiuto, ma c’erano anche tanti morti che vagavano in mare aperto. Enorme la paura. La Gamar era omologata per 9 persone e noi eravamo già in otto, ma ho pensato che 4 o 5 persone  almeno le potevo salvare. Se poi mi avessero multato, pazienza, la vita di un uomo vale ben altro.  Mi porto all’estremità dell’imbarcazione e lancio loro il salvagente, con qualche bracciata lo avrebbero peso e si sarebbero salvati.  Da lì, però, cominciano i nostri problemi. Arrivavano sotto la barca completamente nudi, in maglietta e slippini, il corpo sporco di gasolio, facevamo fatica a tirali su. Ecco il primo, il secondo, le loro erano urla di dolore, ma anche di gioia perché sapevano di essere stati finalmente salvati. A un certo punto un ragazzo mi dice “Thank you”. Non conoscevo l’inglese, così chiesi a un’amica a bordo di domandare quanti erano e da quante ore si trovavano in mare. Rispose 500 persone, ma era evidente che in mare non c’erano così tante persone; proprio in quel momento ho capito che c’era una tragedia in corso. Ho continuato a salvarne e, quando è arrivato un ragazzo a nuoto da solo, ci ha raccontato che alle 12.30 di notte, in prossimità delle nostre luci, lo scafista ha fermato l’imbarcazione e ha chiamato col telefono satellitare qualcuno dei  mascalzoni che approfittano di queste persone, di questi esseri umani che cercano in tutti i modi di dare valore alla propria persona».

Il ricordo affidato al mare (foto Melania Messina)

La tragedia, però, esplode quando lo scafista prende una maglietta, la inzuppa di gasolio e la fa roteare al di sopra della loro imbarcazione. Purtroppo la sfortuna vuole che un pezzo di quella maglietta cade nel vano motore e scoppia un incendio a bordo.

«Il ragazzo ci racconta che uomini, donne e bambini diventano torce umane. Cominciano a spingere dal lato opposto della barca, che con il peso va in rolling. È un attimo e sono tutti in mare. Arrivavano da noi nudi perché avevano detto loro che l’acqua appesantisce gli abiti e sarebbero andati a fondo. Purtroppo, però, la maggior parte di loro non sapeva nuotare, la maggior parte di loro vedeva solo allora il mare per la prima volta. Io mi sono dimenticato delle 4 o 5 persone da salvare e ho continuato a far salire gente a bordo. Non ho mai saputo i loro nomi ma, nell’indifferenza di chi avrebbe potuto fare qualcosa, 368 esseri umani l’alba non l’hanno mai vista.  Vergogna. A un certo punto mi sono dovuto fermare perché la Gamar stava quasi andando a fondo.  Ho chiesto alla Capitaneria di Porto di trasportare le persone salvate per continuare a salvarne altre e mi hanno risposto che il protocollo non lo consente. Vorrei dire loro che la morte non conosce protocollo. E l’istinto di un uomo di salvare la vita di altri esseri umani nemmeno».

Installazione in Darsena a 10 anni dalla strage di Lampedusa (ANSA/MOURAD BALTI TOUATI)

Rientrati al molo Favarolo Vito e i componenti della Gamar scoprono di aver stappato alla morte 47 persone,46 uomini e una donna.

«Veniamo invitati nell’hangar dell’aeroporto per la prima funzione funebre con 119 bare distese, 115 marroni e 4 bianche. In una di quelle marroni c’era una donna recuperata con il figlio che aveva ancora il cordone ombelicale attaccato. Io le urla di genitori e sopravvissuti le sento ancora, risuonano dentro la mia testa ogni notte. Quando ci siamo incontrati la prima volta con coloro che avevamo salvato, ci siamo reciprocamente riconosciuti subito. Nei giorni successivi sono venuti a trovarci nelle nostre attività commerciali ed è allora che ho imparato la mia prima parola in inglese. Ero con Ambassanger, uno dei ragazzi che ero riuscito a salvare, e un ragazzo eritreo che parlava molto bene l’italiano mi riferì che stava dicendo alla persona con cui parlava: “Ti passo my father”. Come fai a rimanere indifferente a tutto questo? L’essere umano può essere tanto vigliacco solo per interessi economici? Può la vita non valere niente? Per non parlare degli esseri umani sepolti nei cimiteri agrigentini con un semplice numero. Non ho mai sotterrato neanche un cane senza nome, persino gli oggetti per me devono essere identificati. Questo mi ha dato un dolore continuo, io che ancora oggi, a ben 74 anni, continuo a essere un sognatore».

Proprio per dare valore e dignità alle persone Vito Fiorino sognava un memoriale, un luogo in cui si potessero ricordare tutti. Così, quando nel 2018 viene nominato “Giusto tra i Giusti” dall’associazione Gariwo, esprime ad alta voce questo suo desiderio e il presidente, Gabriele Nissim, gli dice di non cercare più, i soldi li avrebbe messi lui. Così è stato e oggi nella centralissima piazza Piave, a Lampedusa, “Nuova Speranza” è l’opera che ricorda tutte le vittime di questa assurda tragedia.

Il monumento “Nuova Speranza” a Lampedusa (foto associazione Gariwo)

Rifarei tutto quello che ho fatto, forse salvandone anche di più.

«I superstiti mi hanno aiutato a comporre questo mosaico di umanità che cercavano solo una vita migliore, più giusta. Abbiamo ridato valore e dignità a queste persone, la loro vita continua e io da quelle braccia che le ho teso loro ho ricevuto solo tanta felicità. Non ci sono dubbi che lo rifarei. Tutto questo lo racconto agli studenti che incontro. Quest’anno, da gennaio a giugno, penso siano stati almeno 7mila. I ragazzi, però, sono stufi di parole. Continuano a sentire parole vuote a partire dai loro stessi insegnanti. Se non diamo loro dei fatti, li perdiamo, sapendo che per certe persone perderli è anche un beneficio. Io, lo dicevo, ho 74 anni e lotterò per questi principi fino a quando avrò la forza di farlo. Dobbiamo cercare di dare un valore a questi ragazzi che tutti dicono sono il nostro futuro, ma ai quali non diamo la possibilità di diventare futuro. Avessi sentito qualcuno dire:  «Ma se non gli vendessimo più le armi a questi dittatori, le cose potrebbero cambiare» .Lo sfruttamento nel loro territorio di questi popoli fa scappare i più giovani. Chi ne approfitta? Noi, l’Europa. Crediamo che questo sia il mondo che dobbiamo consegnare ai nostri giovani? ».

In apertura il dolore di chi ricorda dopo dieci anni (foto Melania Messina)


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