Welfare
Strage di Cutro, quello sguardo che sostiene il dolore
Vita e morte, due dimensioni il cui confine, in tragedie come quella avvenuta in Calabria il 26 febbraio, diventa molto sottile. Impossibile dare risposte che leniscano lo strazio delle famiglie, ma anche un solo sguardo può fare la differenza. Per Valentina Castelli, psicologa di “Intersos Crotone”, «bisogna essere pronti ad aiutare chi è rimasto a intraprendere quel cammino che, dal riconoscimento del corpo, conduce all’elaborazione del lutto»
Erano le 3.47 quando coloro che stanno oggi piangendo sulle bare dei loro cari ascoltavano entusiasti i messaggi dei loro cari per la nuova vita che si stava aprendo innanzi a loro. “Siamo arrivati” esclamavano, chiamando i loro parenti in patria, poi più nulla. Calava velocemente quel silenzio che in mare può essere amico, ma anche preludere a qualcosa di ineluttabile. Nessuno avrebbe mai potuto pensare che ogni loro speranza sarebbe stata presa in consegna dall’abisso.
Non lo avrebbero potuto pensare i due ventenni afgani, salvatisi dal naufragio rimasti gli unici di un nucleo familiare composto da 22 persone che avevano deciso di restare uniti in questa avventura di attraversamento del mare. Uniti sono rimasti, ma in un’altra dimensione temporale.
«Questa è una delle storie più strazianti – racconta Valentina Castelli, psicologa di “Intersos Crotone” – anche perché i due giovani che si sono salvati al momento hanno riconosciuto una decina di persone, poi sono arrivati altri corpi, ma ancora 6 sono dispersi. Come loro anche tanti altri stanno riconoscendo cuginetti, fratellini, madri, padri, zii e zie. C’è tanta rabbia rispetto a questo perché erano davvero a pochi metri dalla costa. È, infatti, ancora più doloro accettare che siano andati via così».
Il mondo intero è sconvolto per quanto accaduto, ma anche rispetto a come si sta gestendo il dopo tragedia. Crotone, poi, sente una grossa responsabilità.
«La nostra è una realtà che ha sempre accolto, ma che per fortuna non aveva vissuto mai tragedie di questa portata. Un territorio sensibile e molto attivo rispetto al tema, ora profondamente scosso da questo passaggio di livello perché il contatto con la morte è stato veramente pesante e molto diretto. Il PalaMilone per la nostra città luogo di sport, di vita, oggi è diventato un luogo di morte, di dolore estremo. Riconoscere i cadaveri attraverso le foto, vedere famiglie intere crollare davanti ai nostri occhi è un’esperienza a livello emotivo molto forte dalla quale noi operatori ci dobbiamo ancora riprendere».
Oltre a essere quasi tutti afgani, pochi pakistani, quale siriano e alcuni tunisini, la maggior parte delle persone sul barcone erano donne, quasi tutte in fuga dai talebani, accompagnate alla salvezza dagli uomini che volevano proteggere le proprie madri, le mogli, le sorelle. Numerosi e anche molto piccoli, poi, i figli, al seguito delle mamme.
Tradurre il lutto… che vuol dire?
«Mi sta chiedendo cosa significa “tradurre il lutto”? Vuol dire essere coscienti di poter fare ben poco perché non possiamo peccare di presunzione, ma sapere che quel sostegno che arriva da uno sguardo, da una mano sulla spalla, crea un legame indissolubile con queste persone che, nei giorni successivi alla tragedia, incrociando lo sguardo degli operatori, potevano sentire di non avere perso tutto. Uno smarrimento, il loro, che ho sentito e continuo a sentire addosso e che porterò con me forse per sempre».
Come essere veramente vicini a loro?
«Quello che si può fare è esserci, provare a contenere delle reazioni emotive che possono essere incontrollate, ma anche lasciare fluire il dolore così come si manifesta, rispettando sempre la cultura di provenienza. Ho visto la dignità di queste famiglie anche nel momento di massimo dolore. Persone che hanno riconosciuto i loro cari, hanno salutato e ringraziato la polizia scientifica, andando via nell’assoluto silenzio. Ho sentito e fatto mio il dolore di questo grazie, chiedendomi: “Ma, grazie per cosa?”. Anche con tutta la loro dignità, in questo dolore è faticoso ma è importante esserci. Anche tra noi operatori, psicologi, mediatori, quello sguardo di complicità ci ha salvato perché ci sosteneva e ci teneva in piedi per non crollare. Poi, ognuno, è crollato quando se l’è potuto concedere, a momenti alterni rispetto ad altri, ma sapevamo di stare condividendo qualcosa di grande. Ci siamo sostenuti , a vicenda anche grazie agli sguardi con cui ci seguivamo quasi a proteggerci a vicenda».
Un processo delicato….
«Delicato anche semplicemente nel passaggio perchè si mostrano prima le foto ai parenti, preparandoli a questo passaggio dalla vita alla morte. C’è un accompagnarli quasi per mano perché non è facile passare dalle foto dei documenti a quelle della salma; alcune non sono facili da guardare. Immagini forti che richiedono il rispetto dei tempi personali, quindi devi chiedere loro: “Sei pronto? Quando sei pronto? Possiamo girarla?. Piccoli dettagli che magari in quella circostanza esprimono tutta la cura e l’attenzione che va data a ogni persona».
Possiamo dire che gli operatori delle associazioni, del Terzo settore, hanno fatto la differenza?
«È stato tutto molto confuso nei primi giorni. Dopo l’arrivo del Presidente Mattarella, la Protezione Civile regionale si è attivata dando assistenza e riparo a quelle famiglie che sino ad allora avevano dormito anche dentro le loro auto in quanto, arrivati a Crotone dopo un viaggio durato anche venti ore, non conoscendo il territorio e la lingua, si erano adattati. Il Comune e le associazioni si sono prodigati a reperire per loro l’alloggio, l’accompagnamento per i bisogni di base, colmando ciò che mancava. Ognuno a modo nostro abbiamo messo a disposizione delle risorse, rimanendo ora la risposta da dare al tema del rimpatrio delle salme. Questo vuol dire stilare una lista, raccogliere le volontà rispetto a dove portare i loro cari, cercando allo stesso tempo di mantenere quel clima di fiducia che stavamo perdendo perché non riuscivamo a dare risposte nell’immediato. Fortunatamente, dopo il sit-in di sabato scorso, al quale hanno partecipato anche le famiglie, abbiamo ritrovato l’intesa».
Cosa vuol dire raccogliere e raccontare queste storie?
«A me non è mai piaciuto raccontare le storie, vuoi perché legata al segreto professionale vuoi perché le persone ci raccontano pezzi della loro vita che ritengo debbano mantenere la loro intimità. Ora, invece, mi sono convinta che sono le storie delle persone ad avere il potenziale per riumanizzare perché, in casi come questo, quando il dibattito diventa politico, rimane poco spazio per l’aspetto umano che poi è quello che può risvegliare le coscienze e incidere sulle politiche migratorie non ledendo la dignità e il diritto alla vita di donne, uomini, madri e padri. Quando ho sentito la storia di alcuni fratelli, arrivati dalla Germania per ricongiungersi con la sorella che non vedevano da due decenni perché partiti dall’Afghanistan e separatisi durante i conflitti, mi sono venuti in mente i miei figli. Se pensiamo a quanto amiamo i nostri figli, come li proteggiamo dal freddo, dalle piccole ferite, dalle frustrazioni, come potremmo immaginarli ad affrontare il mare, il freddo, un naufragio. Se solo ci soffermassimo a pensare a tutto questo, forse riacquisteremmo quell’umanità che spesso perdiamo distratti dalla nostra quotidianità».
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.