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Strage a Kabul, l’Italia piange

Dopo la morte dei sei parà, il Paese si interroga: che fare adesso? Vota il sondaggio di vita.it

di Franco Bomprezzi

I giornali oggi dedicano moltissime pagine all’attentato suicida che ha stroncato la vita dei sei parà italiani a Kabul. Ci soffermiamo nella nostra rassegna sui commenti più interessanti e sulle interviste. E secondo voi occorre ritirarsi dall’Afghanistan? Dite la vostra col sondaggio di vita.it

“La strage dei parà scuote l’Italia”, sotto questo titolo (che prende anche lo spazio usualmente dedicato all’editoriale) il CORRIERE DELLA SERA mette le foto dei sei militari uccisi ieri a Kabul dai kamikaze talebani. I servizi interni arrivano fino alla pag 19. “Tutti a casa? La tentazione da evitare” è il commento che parte dalla prima pagina firmato da Franco Venturini. Il controcanto è affidato a Gian Antonio Stella: “Gli eroi di una guerra lontana”. Mentre sempre dalla prima Frattini dice: “«Così non va, una missione da cambiare»”. Ragiona il ministro: «Dobbiamo ancora conquistare la fiducia e il cuore degli afghani. Va cambiato molto». Non parla di ritiro, come ha fatto Bossi, ma sostiene che «bisogna abbinare sicurezza e grande professionalità con l’attenzione ai villaggi, alla gente che soffre». E sull’opposizione aggiunge: «Apprezzo la loro posizione, ci sono voci stonate, ma del tutto isolate». Questi gli altri titoli che compaiono in prima pagina: “Le vittime: nozze, amici e passioni”; La Folgore: “vogliamo morire combattendo”; “I sondaggi sul ritiro: 58% dice sì”; l’intervento di Gliksmann-Zakaria: “Un conflitto che ha ancora senso?” e infine “l’identikit dei nuovi capi Talebani”. A pag 8 il CORRIERE intervista il generale Alberto Ficuciello, papà di Massimo, morto a Nassiriya: “«Il nostro dolore diverso»”, dice fin dal titolo. Un concetto che spiega nell’attacco del pezzo: «Il dolore può avere diverse sfaccettature. E nel mondo dei militari il dolore assume forme particolari, diverse. Perché è legato alla consapevolezza di avere dei compiti da svolgere, alla lealtà verso i propri commilitoni.. Insomma anche un soldato piange, ma è un pianto di un altro genere». Le pag 10 e 11 invece presentano le posizioni di Berlusconi (“«Via presto, ma non si decide da soli!”) e di Bossi (“Impegno esaurito. Per Natale spero tutti a casa”; commento di La Russa: incomprensibile. E anche Maroni si smarca: è resa ai terroristi). “Dubbi a anche nel Pd, ma la linea ufficiale “sottoscritta” da Bersani e Franceschini è «restare».

“Kabul, la strage degli italiani” è il titolo di apertura di REPUBBLICA, che presenta una lunga riflessione di Roberto Saviano. “Quel sangue del sud versato per il paese”, è il titolo dell’intervento. Scrive Saviano: « Vengo da una terra di reduci e combattenti. E l’ennesima strage di soldati non l’accolgo con la sorpresa di chi, davanti a una notizia particolarmente dolorosa e grave, torna a includere una terra lontana come l’Afghanistan nella propria geografia mentale. Per me quel territorio ha sempre fatto parte della mia geografia, geografia di luoghi dove non c’è pace. Gli italiani partiti per laggiù e quelli che restano in Sicilia, in Calabria o in Campania per me fanno in qualche modo parte di una mappa unica, diversa da quella che abbraccia pure Firenze, Torino o Bolzano». Poi Saviano sottolinea un altro parallelismo che accomuna meridione e Afganistan: « Non è solo la scia di sangue che unisce la mia terra a un luogo che dalle mie parti si sente nominare storpiato in Affanìstan, Afgrànistan, Afgà. E’ anche altro. Quell’altro che era arrivato prima che dai paesini della Campania partissero i soldati: l’afgano, l’hashish migliore in assoluto che qui passava in lingotti e riempiva i garage ed è stato per anni il vero richiamo che attirava chiunque nelle piazze di spaccio locali. L’hashish e prima ancora l’eroina e oggi di nuovo l’eroina afgana. Quella che permette ai Taliban di abbondare con l’esplosivo da lanciare contro ai nostri soldati coi loro detonatori umani». Dal punto di vista dell’analisi politico.- strategica, REPUBBLICA si affida alla penna di Lucio Caracciolo. Titolo: “La strategia per uscire dall’inferno Afgano”. Scrive il direttore di Limes: « Anzitutto, ricalibriamo l’obiettivo. L’Afghanistan non diventerà uno Stato e tantomeno una democrazia nel tempo prevedibile. Per limitare il rischio che si riduca a buco nero permanente, a disposizione dell’internazionale jihadista, occorre puntare su un equilibrio dinamico, non istituzionalizzato. Inutile, anzi suicida, inventare paradossali “elezioni”, quasi fossimo in Occidente, con il risultato che chiunque le “vinca” – a cominciare da colui che più di tutti le ha truccate, il presidente Karzai – non potrà esercitare alcuna autorità. Badiamo al sodo: nella storia afgana il potere centrale è funzione di quello locale. Mai viceversa. Come vuole la tradizione e come consente perfino la costituzione, azzeriamo la truffa e torniamo alla fonte del potere, convocando una loya jirga. Una grande assemblea dei capi tribali e dei rappresentanti delle etnie, banditi inclusi, che pullulano nel mosaico afgano. Questo “comitato di salute pubblica” si doterà di un presidente abilitato a trattare col resto del mondo, a nome dei feudatari – i signori della droga e della guerra – che contano davvero. E che dovrebbero condividere un certo interesse a liberarsi da ciò che residua di al-Qaida almeno quanto vorrebbero emanciparsi dall’occupazione occidentale (non dal nostro aiuto economico, peraltro modesto)». REPUBBLICA ripropone anche un’amara intervista a una delle vittime, realizzata in agosto. Si tratta del primo caporalmaggiore Giandomenico Pistonami. Dice Pistonami: « A volte ho la sensazione che le persone che curiamo di giorno, magari nei nostri ambulatori, poi la sera imbraccino il fucile contro di noi, forse mi sbaglio e di sicuro noi continueremo ad aiutarli. Cosa mi fa restare qui? Ho una bimba di due anni e ricordo tutte le medicine, le visite che faceva mia moglie quando l’aspettavamo. Qui i bambini sono spesso abbandonati, muoiono di malattie che da noi sono impensabili come la diarrea. Sono i loro occhi a tenermi qui».

«Abbiamo perso il respiro della storia» scrive Marcello Veneziani su IL GIORNALE «Non capiamo più cos’è la storia, cos’è la guerra, cosa sono i soldati e i guerriglieri, non siamo in grado di capire la virulenza dei fanatici e l’uso delle bombe». «In Italia parliamo di inferno per un nubifragio o una coda in autostrada, di guerra e linciaggio per beghe politiche. Poi un giorno abbiamo davanti agli occhi l’inferno vero di Kabul, la guerra dei talebani contro noi occidentali. E allora capiamo che questa Italia vive in una bambagia di ipocrisie, usando metafore improprie e dimenticando la realtà. Crede di essere entrata nell’era della globalizzazione e invece vive in un universo provinciale, a circuito chiuso, dove tutto finisce a Porta a Porta o in tribunale». «Troppo buonismo ci ha abituato a vedere nell’altro, nello straniero, solo il nostro fratello e non il nostro fratricida. Ma il nemico esiste, purtroppo; e ci dichiara guerra ogni giorno. Da qui la solitudine  sconfortante dei nostri soldati. Non sono lasciati soli dal governo o dagli apparati militari, sono dimenticati dalla gente. Esistono solo quando saltano in aria, quando si fanno martiri e diventano  estreme star della tv, magari quando non sono più nemmeno volti, ma bare avvolte nel tricolore». «L’uomo è guerra e pace, vita e morte, riso e pianto. E non è possibile estirpare la notte per vivere un giorno infinito». Un’altra firma del GIORNALE Fiamma Nirenstein propone la sua analisi. «Il devastante attacco suicida dei talebani a Kabul è l’ennesima tessera di un mosaico che disegna sull’interno orbe terracqueo il mostro del terrorismo disegnato a Teheran». La prima pagina del GIORNALE titola “Reagire o tornare a casa” che è la domanda da cui parte l’editoriale di  Vittorio Feltri che approda ad una proposta «Così non è lecito andare avanti. O si forza la Carta e si conferisce all’esercito  la funzione  che hanno tutti gli eserciti combattenti o se la nostra vocazione è quella delle colombe, anziché affidarsi ai tenenti e caporali, mandiamo in Afghanistan un gruppo di infermiere e di assistenti sociali. Laggiù è in corso un conflitto armato. O lo affrontiamo da militari a pieno titolo o torniamo a casa e ci rassegniamo a esporre alla finestra la bandiera della pace».

Il SOLE 24 ORE spara in prima pagina la testimonianza “in presa diretta” di Cristina Balotelli di Radio24 che nel viaggio di andata a Kabul su un C130 dell’aeronautica ha viaggiato gomito a gomito con uno dei caduti, il sergente maggiore Roberto Valente, e poi all’arrivo è stata testimone – non visiva, ma “acustica” – dell’esplosione che ha fatto saltare i Lince dei parà. Descrive il contrasto tra l’atmosfera scherzosa e serena che precede la strage e quella concitata, drammatica che segue l’attentato e la presa di coscienza da parte dei militari italiani che si tratta dei «nostri» e che alcuni di loro sono a terra. Poi arriva anche per lei e gli altri giornalisti il momento di lasciare l’aeroporto della capitale afghana verso la base italiana Camp Invicta, ma ovviamente l’atmosfera è tesissima: «Ho il cuore in gola», scrive la Balotelli, «e la polvere nel naso. Fuori dai vetri il paesaggio è buio e minaccioso. Quando si avvicina un’automobile o, peggio, un grosso camion mi sento stringere lo stomaco. Noi andiamo molto veloci e in una ventina di minuti raggiungiamo Camp Invicta. (…) Siamo salvi. Qualcun altro però non tornerà più a casa. Questione di minuti: sui Lince sventrati avrei potuto esserci anch’io, oggi».

Esercito e intelligence locale non controllano nulla. E’ uno degli spunti salienti dell’intervista di ITALIA OGGI ad Arduino Paniccia  pubblicata nell’articolo “Tutta Colpa dei Servizi Afgani”. Secondo Paniccia, che  è docente di relazioni internazionali all’università di Trieste e uno dei massimi esperti italiani di strategie diplomatiche e militari «c’è un problema ed è collegato alle inefficienze di coloro che controllano il territorio, ovvero i servizi di informazione e l’esercito afgano. Non è un caso che da 15 giorni il dispositivo di intelligence si sia finalmente rafforzato con la presenza continua dei nostri carabinieri». Paniccia, che da pochi giorni è tornato da un periodo trascorso in Pakistan e in Afghanistan, oltre a sostenere di aver registrato un sentimento di maggiore ostilità nei confronti della presenza militare in generale dovuta alla morte dei civili causate dai bombardamenti, non ritiene che questo atto di terrorismo rientri in una strategia nei confronti degli italiani. Per Paniccia invece «è in atto una strategia contro gli stranieri in generale, una strategia generale dei talebani per riprendere l’iniziativa nelle loro mani più che un messaggio chiaro ai militari italiani». Ancora Paniccia:«Lo scopo dei talebani, è quello di far cadere il governo, impedire che sopravviva, impedire qualsiasi decisione strategica e quindi ripiombati nel caos, colpire ovunque». Come reagire allora? Alla domanda, Paniccia risponde che alla strategia dei talebani bisogna contrapporre una strategia efficace, colpire duro quando serve e intervenire economicamente sia in Afghanistan e Pakistan. E sul presidente Karzai, Paniccia risponde così: «il presidente  deve riguadagnare la fiducia della coalizione, non pensare solo alla sua carriera  e al suo futuro, ma al bene dell’Afghanistan».

Il MANIFESTO ovviamente apre sulla tragedia afghana con il titolo “La guerra addosso” e affida il commento a Giuliana Sgrena, sotto il titolo Afghanistan addio: «Lo abbiamo ripetuto fino alla nausea: in Afghanistan siamo in guerra ma, purtroppo, occorrono i morti per dimostrarlo. Anzi, per il nostro governo non bastano nemmeno le ennesime vittime tra i parà della Folgore, per non parlare di quelle afghane che tanto non si contano. Resteremo, ripete La Russa, mentre si diffonde sempre più il dubbio sul senso dell’intervento in Afghanistan. Non solo tra i pacifisti, esclusi quelli di casa nostra che sembrano aver deposto tutte le bandiere, ma anche tra i governi dei paesi alleati, compreso Obama, che sembrava il più deciso a rafforzare il contingente afghano. È sempre più evidente che la guerra in Afghanistan non si vince, ce lo dicono secoli di storia. (…) Occorre ricominciare dalla politica, ritirando immediatamente le truppe. Questa è la rottura necessaria. Questo non vuol dire abbandonare l’Afghanistan e gli afghani. (…) Non è facile sostituire la politica alle armi quando anche la cooperazione è stata militarizzata.(…) E perché gli afghani dovrebbero preferire le bombe degli eserciti occidentali, schierati a difesa di un potere corrotto fatto di trafficanti di droga e di armi, piuttosto che un gruppo giustizialista che taglia le mani a chi ruba? Certo la scelta è tremenda, ma è questa l’opzione cui si trovano di fronte gli afghani. Una scelta che a noi fa orrore e dovrebbe farlo anche al nostro governo che continua imperterrito a inviare truppe sul fronte afghano».

“Il sacrificio dei parà” è il titolo di apertura di AVVENIRE sull’attentato di ieri a Kabul. Dedicato al tema l’editoriale a firma di Andrea Lavazza “Torna il tempo dell’unità e della chiarezza”: «È necessario stringersi attorno ai nostri soldati. Rimanere costerà altre sofferenze e altri lutti, inutile illudersi, ma rinunciare lascerebbe campo libero a coloro che alla violenza invece non rinunceranno». Seguono approfondimenti da pag. 3 a pag. 7. Due interessanti interviste: Arduino Paniccia, docente di Studi strategici all’università di Trieste, indica la via da seguire in una «nuova strategia, scala più ampia di relazioni, grande enfasi economica, nuove alleanze. Se alcuni episodi recano un enorme dolore, certi impegni internazionali vanno comunque mantenuti». Per l’analista pachistano Rahimullah Yusufzai, la tattica dei talebani è chiara: «Vogliono dimostrare alla gente che il governo afghano è molto debole e che le forze occidentali che lo sostengono non sono in grado di fermarli». Una possibile contro-strategia, «credo che si debba cercare di guadagnare il cuore e la mente della gente grazie a progetti sociali. Sembra, invece, che le truppe internazionali si siano focalizzate un po’ troppo sulle operazioni militari». A pagina 7 parla la vedova di Giuseppe Coletta, il carabiniere morto a Nassiriyah nel 2003: «Ogni volta rivivo lo strazio», ma «se sposi un militare condividi gli stessi valori».  

Una grande foto dell’attentato in Afghanistan apre l’edizione di oggi de LA STAMPA. Molti i commenti e le interviste. In prima l’editoriale di Lucia Annunziata “I dubbiosi non sperino in Barack”, «chi sull’onda del lutto intende aprire un balletto di dubbi sul quanto e sul perché della nostra permanenza militare in Afghanistan» scrive Annunziata «sappia che troverà nel presidente Obama un uomo molto meno paziente, molto meno accomodante, insomma un osso più duro, di quanto sia stato George Bush». L’Afghanistan è «il tallone d’Achille» della presidenza Obama, sostiene Annunziata, «le sue radici intellettuali sono quelle del rifiuto del conflitto e della guerra come strumento di dominio Usa» ma «per la sicurezza ha dovuto impegnarsi in una guerra» «dai contorni meno definiti e rassicuranti di quanto sia stata quella in Iraq», «la contraddizione è lì e Obama non può permettersi di farla scoppiare», quindi se l’Italia tentennerà è prevedibile che risponderà respingendo bruscamente «tutti questi dubbi». LA STAMPA intervista il fisioterapista della Croce Rossa Alberto Cairo che vive in Afghanistan e in questi giorni si trova in Italia per vedere i genitori. Non vuole rilasciare dichiarazioni, è stato strumentalizzato troppe volte, dice, e il suo lavoro è rifare braccia e gambe, anche se «di cose da dire ce ne sarebbero tante». Parla dei ragazzi che si fanno saltare in aria con «quantità industriali di esplosivo che basterebbero a distruggere interi palazzi». La giornalista gli chiede se lui che vive lì da tanti anni ha capito perché lo fanno. «Non c’è un perché che noi possiamo comprendere, vivono in un’altra dimensione. Fatta di un fanatismo che cancella tutto il resto, di ignoranza, di povertà, di disperazione e di indottrinamento. Subiscono il lavaggio del cervello». Che si può fare allora? «Bisognerebbe cercare, forse inventarsi una chiave di dialogo. Ma probabilmente è troppo tardi». LA STAMPA intervista gli ex comandanti Nato a Kabul e in Kosovo. “Senza obiettivi chiari non vinceremo mai” è il titolo dell’intervista al secondo, Fabio Mini. Nei documenti scritti per i militari in Afghanistan, dice, c’è scritto che l’obiettivo della missione è «la sconfitta del terrorismo globale» e la «stabilizzazione dell’Afghanistan e dei suoi vicini», obiettivi che sono irrealistici. Nello stesso tempo non si può andar via da perdenti, senza aver raggiunto  gli obiettivi. Quindi il pantano. E’ la politica, secondo Mini, che deve dire la parola fine, decretare «che cosa significa vincere».

 

E inoltre sui giornali di oggi:  


SANAA
CORRIERE DELLA SERA – In prima pagina trova spazio anche la dichiarazione della madre della ragazza marocchina sgozzata a Pordenone dal padre perché frequentava con un ragazzo italiano più grande di lei. Dice Fatna (il CORRIERE riprende un’intervista raccolta da Italia Uno): «Lui voleva bene a Sanaa..Sono disposta a perdonarlo è il padre dei miei figli…Mio marito non voleva che Sanaa andasse fuori la sera con gli amici. La voleva in casa…Quando lei è andata via di casa, lui non dormiva più, non mangiava, fumava in continuazione, dava pugni al muro e le mandava messaggi».

LA REPUBBLICA – Corrispondenza di Paolo Rumiz da Pordenone: « La storia del marocchino che ha sgozzato la figlia scappata di casa per vivere col fidanzato friulano, è probabilmente altro: l’oscura metamorfosi di un immigrato che diventa furioso padre-padrone. Non il dramma della seconda generazione in bilico fra due identità allo sbando in una banlieue, ma il senso di fallimento dei padri che hanno aperto la strada al grande cambio e ora perdono i punti di riferimento in un mondo che cambia. Il dramma complesso di una famiglia spaccata, fatto apposta per smantellare i luoghi comuni».

IL GIORNALE – La mamma della 18enne Sanaa, uccisa a coltellate dal padre, perdona il marito e dice «Mia figlia ha sbagliato a andarsene di casa». Enzo Bortolotti, sindaco di Azzano Decimo commenta «Questa donna e la sua famiglia sono indesiderati, vadano via dal paese». Souad Sbai, onorevole del PdL  a pag. 21 solleva dubbi sulla genuinità delle dichiarazione della madre di Sanaa che ora è casa dell’imam di Pordenone.

IMMIGRAZIONE

LA REPUBBLICA – Un caso di baby bullismo a sfondo razziale a Treviso. Un ragazzino kosovaro di tredici anni costretto a cambiare scuola perché preso in giro dai compagni di classe. Non ne poteva più di subire insulti razzisti, di ascoltare offese che lo ferivano, così ha chiesto ai genitori di cambiare scuola.

CAMORRA

LA STAMPA – “Castel Volturno, là dove Gomorra resta padrona”. Era il 18 settembre 2008 quando i killer del clan dei Casalesi entrarono in azione sulla Domiziana e fecero «la strage dei nigeriani», sei ragazzi uccisi ma «il numero delle vittime non contava,eravamo pronti a ucciderne molti di più» dice il pentito Oreste Spagnulo. Nessuno ricorda i loro nomi a Castel Volturno, nessuno parla o pronuncia la parola “camorra”. Alla Caritas hanno organizzato una messa e un corteo.

TESTAMENTO BIOLOGICO

LA REPUBBLICA – “E il Tar del Lazio sconfessa la legge sul testamento biologico” titola il quotidiano. La sentenza del Tribunale Amministrativo afferma che «a nessuno può essere imposta l’alimentazione forzata se esprime la volontà di interrompere terapie giudicate inutili». Repubblica raccoglie il commento di Sacconi “sconfessato”: « “Se corrisponde al vero quanto contenuto in una nota che fa riferimento a una sentenza del Tar del Lazio sul caso di Eluana Englaro, questo rende di fatto ancora più urgente l’approvazione della ‘norma Englaro’”, sostiene il ministro del Welfare Maurizio Sacconi spiegando che la norma riguarderà “l’inalienabile diritto all’alimentazione e all’idratazione per offrire una certezza normativa coerente con l’articolo 2 della Carta costituzionale e con il riconoscimento del valore della vita che è presente nella tradizione largamente condivisa del nostro popolo”».

AVVENIRE – Dalla prima: “Respinto il ricorso sul fine vita, ma il Tar è ambiguo”. «Dal Movimento difesa del cittadino esultano, ma il ricorso è stato giudicato inammissibile per difetto di giurisdizione». Pier Luigi Fornati si sofferma sul merito della sentenza del Tar del Lazio di ieri «lunga e confusa», con affermazioni «non attinenti alla natura amministrativa del Tar», riferendosi al parere del tribunale secondo cui ai malati in stato vegetativo si possono sospendere alimentazione e idratazione. Il “Secondo noi” di AVVENIRE: «Non c’è più tempo da perdere, il Parlamento non può tollerare oltre di lasciarsi esautorare da ristrette cerchie di magistrati che manipolano a piacimento principi giuridici cardine su una materia indisponibile come la vita umana». Magistrati autori di «un discutibile esercizio retorico e ideologico», che esalterebbe la libertà individuale a tal punto da giustificare un «raggelante diritto di morire».

FINANZA
SOLE 24 ORE – Articolo in prima pagina che anticipa il discorso che Gianfranco Fini terrà oggi al convegno “Come muoversi tra etica e banche” organizzato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Cento. In pratica una laudatio della finanza etica che – dice Fini – «si propone di riformulare la gerarchia dei valori di riferimento: la persona prima del capitale, il progetto prima del patrimonio, l’equa remunerazione prima della speculazione». Nel resto del discorso, dopo un’analisi della cause che hanno determinato la crisi da cui non siamo ancora usciti (e ovviamente sono cause anche etiche), la conclusione è che «l’etica non può animare profondamente l’attività finanziaria provenendo dal di fuori del sistema, l’etica deve emergere dal suo interno». Come? Semplice: non con regole rigide calate dall’alto (soprattutto non dallo Stato) ma con «la scelta dei consumatori-utenti di non acquistare beni o servizi di un operatore economico che non soddisfi determinate aspettative dal punto di vista etico».

SCUOLA

AVVENIRE – Alle pagine 8 e 9 un’anticipazione del nuovo volume elaborato dalla Cei sull’emergenza educativa «che ha colpito le società occidentali e che esige analisi e risposte chiare». Uno dei temi chiave, quello dei new media. “Per i media l’ora della responsabilità”, i contenuti  che vediamo in tv «sono prodotti da un’élite professionale e culturale composta di giornalisti, responsabili di palinsesto, autori, registi, produttori». E Internet va rivalutato come risorsa. D’interesse anche l’eclissi dell’educazione: «È saltata la solidarietà intergenerazionale, gli adulti hanno smarrito la propria responsabilità di educatori».


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