Welfare

Storify finanziario

di Flaviano Zandonai

Non è proprio possibile evitare di occuparsi di finanza per l’impresa sociale, anche per non-esperti come il sottoscritto. Giovedì scorso il seminario milanese organizzato da Euricse con Vita e Avanzi. Lunedì un workshop a Venezia con interessanti casi studio locali. E soprattutto oggi la riunione dell’advisory board dei rappresentanti italiani della task force su impact investing costituita in sede G8 e ospitata da Uman Foundation. In mezzo e in futuro chissà quanti altri appuntamenti…

La tendenza ormai è chiara. Una parte del settore finanziario si candida a mutare l’architettura del welfare e, di conseguenza, a modificare il business model delle imprese sociali. Il cambio di paradigma prevede che una parte sempre più consistente della protezione sociale venga finanziata non solo attraverso la redistribuzione ma con l’investimento. Il social impact bond è il prototipo di questo modello: obbligazioni che raccolgono denaro da investire in progetti dove la remunerazione del capitale è legata alla realizzazione di un impatto sociale rendicontabile. E’ un grande cambiamento per imprese che, ancor oggi, redistribuiscono risorse pubbliche in forma di servizi. La finanza a impatto sociale sposta invece l’obiettivo sul raggiungimento di redditività in grado di ripagare l’investimento.

Oggi l’evidenza è il mismatch tra domanda e offerta. Si sta accumulando una massa di risorse economiche disposta a essere paziente nei tempi di rientro e calmierata nei rendimenti, ma che fatica a essere intercettata da parte di imprese sociali che del mercato della finanza hanno poca dimestichezza e manifestano quindi una certa prudenza (se non resistenza). Tanto che, se investono, preferiscono autofinanziarsi o ricorrere a strutture finanziarie fatte su misura, magari poste sotto il loro controllo. Questo a una lettura generale. Poi però si manifestano, in modo sempre più evidente, alcune segmentazioni interne. Nuove forme ibride, società veicolo costruite ad hoc per investimenti a elevata intensità di capitali che non possono essere raccolti solo a corto raggio e solo in occasioni speciali. E dove l’obiettivo è di affermare l’impresa sociale in ambiti dove si ritiene ci sia spazio per iniziative a elevato impatto sociale, come la sanità, l’abitare, la mobilità, la produzione energetica, ecc. Dove è possibile competere per la produzione di valore sociale agendo in regime d’impresa.

Con un po’ meno di ideologia e un po’ più di pragmatismo si può sostenere che la finanza pone alcune questioni rilevanti per lo sviluppo dell’impresa sociale. In primo luogo rispetto al modo in cui queste imprese sono effettivamente in grado di cogliere i problemi e organizzare le soluzioni, mediando tra i diversi interessi. Un compito che, nel recente passato, era esclusiva dell’amministrazione pubblica, mentre oggi richiede capacità di negoziazione tra diversi attori con l’impresa sociale in posizione di (non sempre comoda) leadership. In secondo luogo la finanza interroga l’impresa sociale sul suo modello di crescita, su come intende diventare grande. E’ una questione di dimensioni aziendali certo. Ma è soprattutto una questione di scalabilità dell’innovazione tenendosi in equilibrio tra processi di standardizzazione ed elementi di peculiarità locale. C’è infine il tema dell’efficienza e dell’efficacia. La prima per recuperare margini di redditività, ma soprattutto per recuperare posizioni rispetto a un’efficacia che invece è tutta da strumentare utilizzando adeguate metriche d’impatto.

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