Testimoni

Yvan Sagnet, l’ingegnere-bracciante in lotta contro il neoschiavismo

di Barbara Marini

Dialogo col presidente di NoCap, l'associazione anti-caporalato nata con la mobillitazione dei braccianti a Nardò (Lecce). Dopo la tragica morte di Satnam Singh a Latina, questo camerunense di 39 anni, che ha iniziato a lavorare nei campi facendo lo studente al Politecnico di Torino, condivide i suoi sentimenti e dice che lottare per i diritti è un dovere di umanità

Mi preoccupa chiamare Yvan Sagnet, il primo camerunense italiano a scioperare dai campi di pomodoro di Nardò (Lecce), dove lavorava come uno schiavo, sotto il controllo dei caporali. Fu lui a dar vita al primo sciopero di lavoratori stranieri in Italia. È questo l’evento che smuoverà l’opinione pubblica sul tema del caporalato. E da lì nascerà NoCap. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, lo ha nominato per questo “cavaliere al merito delle Repubblica”.

Devo chiedergli un giudizio dopo l’orribile fine di Satnam Singh, che non è morto per un incidente sul lavoro, benché gravissimo, essendosi tranciato un braccio, ma per essere stato gettato come spazzatura davanti alla sua casa, col braccio messo in una cassetta per la frutta, senza nessun soccorso immediato. Satnam, di origine indiana, lavorava come bracciante in un’azienda agricola di borgo Santa Maria, nella periferia di Latina.  È morto perché per qualcuno, la sua vita non aveva alcun valore.

Commozione ma non rancore

Mi risponde un uomo provato, dalla voce di ingegnere, di persona razionale, che a volte si ferma per la commozione e dal sottofondo di bambini che giocano; questo paradosso è proprio il tratto della sua personalità che mi colpisce… mi aspettavo un animo pieno di rancore, invece, con calma mi dice che «i primi giorni mi sono venuti anche i brividi perché è una vicenda che non lascia indifferenti: soprattutto per il trattamento al corpo della persona. Come sia possibile che una persona ormai indifesa… è vergognoso, qualifica chi l’ha fatto, quindi questa è una vicenda terribile».

Conoscendo un po’ la sua storia (leggi l’articolo di Emiliano Moccia) immagino che avrà visto tanti fatti terribili ma lui non cade mai nelle spiegazioni sociologiche e ritorna sempre alla persona: «Ogni volta c’è una rabbia e una indignazione ma ogni situazione è particolare perché purtroppo il contesto è questo e dietro a questa particolarità e complessità c’è sempre una carica di emozione. Quanto è accaduto a Satnam è ancora un altro tipo di situazione, veramente clamorosa: quello che ha fatto quel datore di lavoro è inammissibile! Le sue dichiarazioni (il datore di lavoro, Antonello Lovato, accusato di omissione di soccorso, violazione delle disposizioni in materia di lavoro irregolare e omicidio colposo, ndr) lasciano il tempo che trovano perché sarebbe stato meglio il silenzio: io uno così neanche lo guarderei in faccia».

La calma, la lucidità e la sproporzione con cui prova a elaborare un giudizio mi fanno chiedere a Yvan cosa lo muove, quale è la ragione per cui spende la sua vita per questa causa.

Io sono stato schiavo come lui

«C’è un vissuto: io sono stato come Satnam, sono passato da lì, questo fa la differenza cioè non sono cose che ho sentito  in televisione o letto sui giornali: quando sei stato uno schiavo di questo sistema tu capisci cosa significa e se nel mio caso, hai la fortuna di avere gli strumenti intellettuali e culturali per denunciare,  cerchi di dare una mano perché la nostra presenza su questa terra è fatta maggiormente di “dovere”: io per giustificare la mia presenza, il mio passaggio, ho pensato che dovevo fare qualcosa perché quello che ci anima stessa umanità è il non essere indifferenti e soprattutto devi metterti a disposizione, perché è nostro dovere, per la nostra umanità, per la nostra comunità, per quello che siamo e saremo».

L’ingiustizia e il dolore sono qualcosa che dobbiamo combattere tutti i giorni

Yvan Sagnet

L’ingegnere-bracciante

Yvan ha 39 anni, si è laureato a Torino e durante gli studi si manteneva facendo il bracciante, fino all’Alessandrino. Conosce bene le realtà agricole e le modalità che, senza peli sulla lingua, chiama “neo-schiavismo”. Da Nord a Sud. E continua: «Io vengo da una cultura in cui il dolore è qualcosa di quotidiano, lo abbiamo imparato ad affrontare tutti i giorni. Il dolore è la vita e la vita è dolore, sì la vita tutta è dolore perché, se tutto fosse a posto saremo in già paradiso. Per questo l’ingiustizia e il dolore sono qualcosa che bisogna combattere tutti i giorni. Io vengo da un continente, l’Africa, una terra in cui soffriamo tutti i giorni; le ragioni sono diverse però c’è sempre un punto in comune: le difficoltà, i passaggi dolorosi della vita poi ci fortificano. La vita ci insegna ad affrontare il dolore e ci aiutiamo»

Il dialogo si fa reciproco e gli racconto di quando giravo per i quartieri periferici del Cairo dove ho capito che noi occidentali non sappiamo cosa sia davvero la povertà come privazione di umanità e come mi accorgevo che noi non abbiamo alcuna coscienza del bene che abbiamo. Mi domando da allora, cosa si possa pensare di noi che siamo nati dalla parte fortunata dell’emisfero? E qui dal tono commosso e sgomento diviene un fiume in piena, di storia, di antropologia, di conoscenza e soprattutto di coscienza della storia di popoli che poco imparano dalle proprie ceneri.

I danni del Colonialismo

«L’Occidente è sempre stato per me un mistero perché ha vissuto in passato una situazione del genere: il Fascismo, la Seconda Guerra mondiale, l’immigrazione di massa degli italiani, all’inizio del secolo scorso verso gli Stati Uniti e verso diversi paesi europei, la miseria. L’occidente, l’Europa ha conosciuto i totalitarismi, la fame…  io sono un’amante dell’Occidente, sono un cittadino italiano, e non capisco come il Colonialismo abbia potuto fare danni così enormi: lo schiavismo, cioè togliere figli e radici a persone per portarli a fare gli schiavi in un altro mondo; La violenza, con la morte di milioni di persone, lo sfruttamento delle risorse: tutto ciò continua però a lasciare sempre indifferente una parte di questo occidente che crede nei nazionalismi. È un mistero questa complessità che è che dimentica il passato, la storia non fanno i conti non affronta mai le colpe, c’è autoreferenzialità esagerata, si continua a pensare solo al benessere e a se stessi, dimenticando il male che è state fatto agli altri. È difficile per me da capire perché oggi l’uomo occidentale dovrebbe essere il primo a porsi delle domande, essere all’avanguardia su tutto quello che riguarda la sensibilità umana, i diritti della persona, l’accoglienza. In questo, è un mistero».

Il disprezzo per quelli che salgono sui barconi

E ancora, col tono di un amante ferito «non si capisce come mai un paese come l’Italia che ha prodotto nella storia dell’umanità, 80 milioni di migranti, in tutto il Sud America in Europa del nord e oggi sono incapaci di accogliere, e anzi c’è un disprezzo per il barcone, per chi sale nei barconi alla ricerca di un mondo migliore. Rimango stupito quando la storia non insegna».

Gli chiedo se la politica lo corteggia e mi risponde che lui ha un grande rispetto della politica e delle Istituzioni ma quello non è il suo posto perché, se cedesse alle proposte che gli arrivano, «gli ultimi rimarrebbero soli». L’umanità che Yvan incontra va dalle donne sottratte alle tratte della prostituzione, agli schiavi nei nostri campi che portano i nostri ortaggi a tavola. Vengono derubati dei permessi di soggiorno con la scusa di fare i contratti di lavoro e vengono segregati, ricattati e umiliati. Vengono anche pagati, 1, 2, se va benissimo 3 euro l’ora, dietro le spiagge modaiole della Puglia. Mi racconta che la loro gratitudine è la sua forza, che ogni giorno si sveglia con una utopia e si scontra con la realtà, con le organizzazioni criminali che la sorreggono, con l’omertà, ma ogni giorno sceglie per il bene.

Siamo un paese del G-7 ma con i ghetti

Mi racconta delle concentrazioni umane delle baraccopoli di Foggia, di Rosarno, il ghetto di Rignano garganico, di San Ferdinando, nelle stazioni, i luoghi che chiamiamo  della contraddizione sociale che in un paese del G7 non dovrebbero neanche esistere, che chiama “ghetti”, dove tre-settemila persone sono costrette a rimanere senza poter lavorare, anche anni, senza permesso di soggiorno e senza i beni primari: acqua, luce, pulizia, lavoro… quanto questo sia una fornace di depressione e rabbia dopo le aspettative di miglioramento e di salvezza che li avevano portati a sfidare il mare. Mi racconta che il neoschiavismo è sottile e mira alla eliminazione della dignità, non ci sono catene visibili ma è ancora più devastante, perché viene annientata la possibilità di scegliere. La disperazione che vivono, la rassegnazione, il non senso. Questo è un sistema violento. Se non hai nulla, il “caporale” ti attira. Mi parla dei suoi bambini, italianissimi con pelle mista e mi racconta la pura dell’emarginazione e delle precauzioni che ormai è costretto a prendere per proteggere la sua famiglia. Mi dice di avere una grande fede e che quella gli insegna la differenza tra il bene e il male.

La coscienza del consumatore

Ho trovato un uomo che serve altri uomini resi schiavi e domani sarò preoccupata di fare la spesa perché dovrò prendere coscienza che dietro i bei pomodori lucidati e le zucchine perfette c’è un campo di dolore e di vergogna che la mia inconsapevolezza e inerzia in qualche modo concimano.

Ci salutiamo con la promessa di un pranzo a casa mia, perché il primo modo per cambiare è ospitare e lasciare entrare.


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