“Noi vogliamo vedere persone bianche, sposare persone bianche, avere dei bambini con persone bianche”, François, senegalese, 28 anni. Le dice convinta queste parole perché “alla televisione ho visto che i bianchi stanno bene”. È una dei venticinque protagonisti del documentario Wallah – Je te jure.
«Wallah significa te lo giuro», racconta a Vita.it il regista Marcello Merletto. «Tutti i migranti africani che abbiamo intervistato lo ripetono spessissimo. Alla fine delle frasi. Tra le parole. Wallah – te lo giuro».
Il documentario è stato presentato oggi sei dicembre a Ginevra, nella sede principale dell’Iom. È stata infatti l’International Organization for Migration del Niger a finanziarne i costi di produzione.
«E l’ha fatto», continua Merletto, «con l’obiettivo di migliorare i loro progetti di formazione sul territorio». Iom vuole provare a spiegare a chi vuole partire per l’Europa i rischi a cui andrà incontro. «Avevano già diversi progetti attivi sul territorio. Ma non bastava. Così hanno pensato che un supporto audiovisivo sarebbe stato più efficace».
Tutto è iniziato a novembre del 2015. È lì che si inizia a tracciare un percorso. A gennaio 2016 e il mese successivo, a febbraio, Merletto insieme a Elisabetta Jankovic e Giacomo Zandonini, assistenti di produzione, sono andati prima in Niger e poi in Senegal.
«L’ultima parte del documentario, invece, l’abbiamo girata in Italia: tra Pavia e Milano». Nei 63 minuti di documentario si susseguono le storie, i progetti ma anche le speranze di questi giovani – tutti tra i 15 e i 29 anni – tradite una volta arrivati in Europa, in questa Italia che poi rompe quel “sogno italiano” dove i bianchi non sono quelli felici delle televisioni.
«Il Niger è l’approdo di tutti i migranti dell’Africa Occidentale», spiega Marcello. Niamey, la capitale, è una delle ultime tappa prima dell’inferno in Libia. «Nessuno si muove singolarmente.
Tutti vengono economicamente sostenuti dalla famiglia e a volte anche dal villaggio d’origine. In Niger arrivano in pullman. Poi attraversano il deserto: stanno sui camion per quattro o cinque giorni di fila, ne partono 2500 a settimana per la Libia o l’Algeria».
Arrivano in Libia, qui si fermano. Vengono imprigionati, picchiati tutti i giorni, costretti a lavorare come schiavi. Torturati con i fili della corrente elettrica. Catturati affinché la famiglia d’origine paghi un riscatto.
Poi, forse, qualcuno viene buttato su un barcone: l’ultimo pezzo è la rotta del Mediterraneo, quella mortale. “È stato Dio che dal Niger mi ha portato qui (Libia). È stato Dio che da qui mi ha portato a Lampedusa”. Racconta un ragazzo. Loro non hanno paura di morire: “Se muoio in Niger, in Libia, in Italia che cambia? È Dio che ha la mappa già tracciata e decide dove devo morire”.
La maggior parte sono musulmani. E credono fermamente in un Dio che li aiuterà. E non pensano che, invece, sulla strada saranno troppi i non – umani che non li guarderanno. Ma “se una persone vuole partire, deve avere la possibilità di farlo. Deve partire e basta”.
«Questo», spiega Marcello, «è un fenomeno impossibile da arginare. Hanno questa fede sconfinata quindi pensano che sia Dio a scegliere per loro». Il documentario sarà presentato nei prossimi giorni in varie città italiane tra cui Napoli, Roma, Trento, Milano, Padova e poi nell’ambito del circuito Global Migration Film Festival sarà proiettato in Olanda, Russia, Stai Uniti d’America, Cipro, Somalia, Iraq, Kosovo.
Le lingue originali dei dialoghi sono il francese, l’inglese e il Wolof. I sottotitoli, invece, in italiano, francese ed inglese. Dello stesso documentario sono state realizzate due versione: una per informare i probabili futuri immigrati che partono dal Senegal, dalla Costa d’Avorio, dalla Guinea, dal Ghana… l’altra per noi. Per questi “bianchi che sembrano felici”.
«È giusto che queste persone vengano informate attraverso il racconto di chi il viaggio l’ha intrapreso prima di loro. Ed è anche bene che vedano l’altra faccia della medaglia, quella di chi si è pentito e vorrebbe tornare a casa.
La versione che l’Iom sta diffondendo nei Paesi d’origine è più tecnica. Racconta i rischi e da qualche informazioni di base su quello che succede quando si arriva vivi “dopo il Mediterraneo”. Poi c’è l’altra versione, meno tecnica, basata più sul racconto, che speriamo faccia riflettere: sono persone piene di speranza per una vita diversa, migliore».
Wallah, i rischi e le speranze tradite di chi fugge dall'Africa in Europa
Testi di Anna Spena
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