Donne, sport e diritti

Voleva solo fare la calciatrice

di Ilaria Dioguardi

Storia di Alice Pignagnoli, campionessa fra i pali, che ha pagato con il declassamento sportivo, dalla serie A alla B, il suo desiderio di essere madre. Ne ha tratto un libro e ora lotta per i diritti di tutte le atlete

Gioca a calcio da quando ha cinque anni, è una mamma (bis da due giorni). «Ancora è forte lo stereotipo che non si possa fare la mamma e la calciatrice di professione». Si batte per i diritti delle atlete, ha scritto un libro .

«Ho appena partorito il mio secondo figlio, Mattia. Sono felicissima, emozionata e stanca». In quest’intervista, dopo due giorni dal secondo parto e con la voce a tratti rotta dall’emozione, ci racconta le grandi difficoltà della conciliazione di due gravidanze e di una carriera da calciatrice. «Le donne che fanno il mio lavoro non sono mai state tutelate, quindi le ragazze, nella maggior parte dei casi, decidono di smettere di fare le calciatrici quando iniziano a pensare a una famiglia, trovano un lavoro più retribuito e più tutelato», dice Alice Pignagnoli, 35 anni, portiere della Lucchese in serie C «fino al 30 giugno».

Da quest’anno la serie A di calcio femminile è considerata professionista, ma è l’unica categoria ad esserlo. «Stiamo parlando di circa 200 atlete. Il professionismo alle calciatrici ha impattato molto a livello mediatico, ma nella sostanza non è cambiato nulla, dalla serie B in giù. È come se in una piramide vai a mettere una statua d’oro sulla punta. Bellissimo, ma tutto il resto? È evidente lo stereotipo che non si possa fare la mamma e la calciatrice. In Italia, il calcio non è considerato ancora un lavoro, per le calciatrici, nonostante vivano, sin da bambine, per questo e di questo. Ho fatto un percorso che è stato considerato rivoluzionario, ma dovrebbe essere normale: una donna che ha dedicato tutta la vita allo sport, nel momento in cui decide di fare dei figli va avanti nella sua carriera, come le altre mamme lavoratrici. Pur sapendo che, dalla serie B in giù, ha un contratto annuale, viene pagata circa settemila euro l’anno, con dieci mensilità». Le difficoltà non si sono fatte attendere.

Alla notizia della seconda gravidanza, la società calcistica di appartenenza, la Lucchese, decide di interrompere il pagamento dei compensi a Pignagnoli, disconoscendo il lavoro in cui si era profusa fino ad allora. «Dopo due partite di campionato, lo scorso ottobre scopro di essere incinta. Il mio primo pensiero è stato subito di disperazione e di organizzazione del ritorno, dopo il parto. Dopo pochi giorni, vengo a sapere che la società non mi vuole più pagare, neanche i mesi arretrati. Mi hanno escluso dal gruppo, non ho più avuto contatti con le mie compagne di squadra, mi sono trovata all’improvviso ad avere il vuoto attorno». Questa è stata la parte più difficile per Pignagnoli, molto più della parte economica, che sapeva spettarle. «Per me è stato faticoso il fatto di vivere in totale solitudine questa seconda maternità, come se fosse una punizione che dovevo subire. Gioco a pallone dall’età di cinque anni: non potermi allenare sul campo e non vivere con la squadra è stato un problema. Mi sono rivolta a un avvocato per recuperare gli stipendi. Il 30 giugno mi scade il contratto e verrò svincolata». Grazie alle lotte di associazioni come Associazione Nazionale Atlete – Assist, dal 2018 esiste un fondo di maternità che aiuta le atlete e soprattutto le società.

A Pignagnoli spetta fino a dicembre, nel frattempo sta cercando una squadra. «Spero di trovarla presto. Due anni fa non la trovavo con una bimba, ora con due figli sarà ancora più difficile. Squadre che prima avrebbero fatto carte false per avermi, non sono interessate neanche ad aprire una trattativa. Mi rimetterò in forma questi tre mesi dopo il parto, con uno staff che mi seguirà tutta l’estate. Mio marito ha preso due mesi di congedo dal lavoro per stare con i nostri figli, per questo è stato visto come un “extraterrestre”».

Alice Pignagnoli si racconta nel libro Volevo solo fare la calciatrice (Minerva Edizioni). Una storia di un sogno fatto di successo, sudore, sacrificio, fallimenti e di come a fare la differenza sia sempre il modo in cui si riesce a reagire sul campo. Colpisce un dato. Quando la calciatrice conosce l’uomo che poi diventerà suo marito, lei aveva già vinto uno scudetto e giocato una Champions League, lui giocava nell’Eccellenza e guadagnava il 50% più di lei. «Mio marito ha sempre giocato per divertimento ma ha sempre guadagnato più di me. Purtroppo la parità tra calciatori e calciatrici è ancora molto lontana».

Nel suo libro racconta anche di come, con la sua prima maternità, sia stata, con il senno di poi, fortunata. «Quando dissi di essere incinta, il Cesena mi fece firmare la risoluzione contrattuale. In quel momento, anche con ingenuità, non mi chiesi se fosse giusto quello che stavo facendo, se i miei diritti fossero calpestati o rispettati. Ebbi la fortuna di rimanere vicino alle mie compagne, con i costi vivi pagati, senza prendere lo stipendio ma facevo parte a tutti gli effetti della squadra: ero percepita come una compagna impossibilitata a performare, come un’infortunata. Al settimo mese di gravidanza mi offrirono un contratto per l’anno successivo, alle stesse condizioni dell’anno precedente, non considerando che avrei potuto non essere in forma come prima», dice Pignagnoli.

Questo fatto le diede tanta fiducia e le permise di tornare in campo, con grandi sacrifici, solo 100 giorni dopo il parto cesareo. L’anno successivo, con un contratto da dilettante, un compenso di 700 euro al mese e una bimba piccola, non poteva stare a Cesena tutta la settimana (vive a Reggio Emilia). «Non potevo permettermi la baby sitter: facevo gli allenamenti vicino casa, dal giovedì alla domenica raggiungevo la squadra. Sacrificavo il mio tempo da trascorrere con mia figlia, ma ciò mi permetteva di giocare ad alto livello. L’anno successivo queste condizioni non andarono più bene alla società: il discorso della conciliazione tra lavoro e famiglia nel nostro paese è molto difficile da accettare. Anche nelle basse categorie, gli uomini guadagnano 200mila euro l’anno, non hanno problemi a portarsi dietro tutta la famiglia. Sono dovuta scendere di categoria, era il prezzo da pagare per poter essere presente solo metà settimana».

Pignagnoli è un profilo alto per la serie B, con 250 presenze in categorie nazionali. «Fino all’anno precedente la mia prima gravidanza, tutte le società mi avrebbero voluto, dall’anno dopo ero considerata un problema. Mio marito si occupa più di me di Eva, che ha quasi tre anni: ogni equilibrio familiare dovrebbe essere una scelta e non un’imposizione. Neanche di fronte alla mia volontà di firmare un contratto, in cui ho degli obblighi (se non vado a giocare il contratto decade), le società sono interessate. Spesso si parla di diritti, ma poi non si ragiona sulle capacità: si preferisce investire su un portiere più giovane, con meno esperienza, senza figli e pagato pochissimo», dice la calciatrice. «Vorrei che le donne venissero valutate per quello che sanno fare e che cambiasse la mentalità di fronte alla genitorialità. Ci si sente legittimati a non assumere le mamme o a demansionarle. In un’intera vita lavorativa, i genitori devono conciliare lavoro e vita familiare con i bambini piccoli per i primi due-tre anni di vita dei figli, ma a volte lavorano più di 40 anni per la stessa azienda».

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