Aldo Schiavone

«Viviamo uno scandaloso vuoto di pensiero e politica: rischiamo l’anomia»

di Marco Dotti

L’idea di progresso - spiega lo storico Aldo Schiavone - esprime qualcosa di profondo e di essenziale: una rappresentazione della storia senza la quale la nostra identità e la nostra capacità di progettare il futuro sono a rischio. Soprattutto in un periodo in cui la pandemia rischia di tramutarsi in anomia sociale

L'abbiamo usata, abusata e, poi, abbandonata, cancellata, dimenticata nelle pieghe di qualche dizionario: è la parola «progresso». Gli economisti, oramai, parlano di "crescita" (growth), chi critica l'economia di decrescita (degrowth). Eppure, racconta Aldo Schiavone nel suo ultimo libro Progresso (Il mulino, pagine 152, euro 12), tornare all'idea di progresso è necessario. Necessario per ritrovare «la freccia del tempo».

L’idea di progresso – ci spiega lo storico Aldo Schiavone – esprime qualcosa di profondo e di essenziale: una rappresentazione della storia senza la quale la nostra identità e la nostra capacità di progettare il futuro sono a rischio.

Dar forma al nostro futuro: il progresso

Progresso è una parola fuori moda, contro intuitiva. Oggi si parla di crescita, di sviluppo. Ma progresso…
Eppure oggi più che mai, noi come specie umana, abbiamo bisogno di recuperare una parola come progresso. Ne abbiamo bisogno perché quella parola ci consente di riappropriarci del futuro.

Negli ultimi decenni, in seguito a vicende di grande complessità e in parte anche tragiche, soprattutto l'Occidente ha perso il rapporto con il futuro.

L’Occidente immagina il futuro o come un prolungamento indefinito del presente o come un luogo abitato da ansia e paura. Un luogo di incertezza e di peggioramento della propria condizione sociale economica. Un luogo di perdita di vita complessiva della propria dignità. Questo modo di intendere il futuro riguarda oramai strati molto ampi della popolazione.

Dobbiamo invece riprendere un' idea positiva del futuro?
Esattamente e, dentro un’idea positiva del futuro come progetto, come speranza, come proiezione in avanti delle nostre vite ecco che appare l' idea di progresso.

Medicalizzare la crisi, governare la tecnica

Oltre al clima complessivo di sfiducia del futuro, emergono però voci intellettualmente rispettabilissime, ma dai toni apocalittici talvolta compiaciuti, talaltra sinceramente preoccupati. Anche questo fa problema…
Si presenta qui la grande questione della tecnica. Se stiamo agli esiti della pandemia, non credo che la pandemia sia una “lezione” sbattuta in faccia a chi credeva nel potere infinito della tecnica. Credo al contrario che, proprio grazie alla tecnica e ai suoi strumenti, noi siamo in questo momento ingaggiati in una grande lotta contro la pandemia… e stiamo ottenendo ottimi risultati.

Nel quotidiano, lo sconforto cresce. Ma se distanziamo il campo visivo che cosa accade?
Accade che, se mettiamo a confronto i dati della precedente pandemia, dobbiamo dire che – e lo diciamo senza minimizzare, ma proprio per mettere in prospettiva le cose – l’epidemia che stiamo affrontando non è paragonabile a quella della febbre spagnola, che colpì il pianeta esattamente un secolo fa, alla fine della Prima Guerra Mondiale. Se confrontiamo le due pandemie – e qui torniamo al tema del progresso – vediamo che c’è stato un passo avanti enorme in termini di capacità di risposte da parte del pianeta intero. La capacità di medicalizzare la crisi a livello mondiale è, oggi, ai massimi livelli, cosa che, invece, nel ’19 e nel 20 non si tentò nemmeno lontanamente di fare.

Si poteva fare di più, oggi…
Certamente si poteva fare più informazione, si potevano fare più scambi di conoscenze, si potevano usare meglio e risorse. Ma questo è un problema che non viene dalla povertà tecnica: è un problema di povertà della politica.

Emanuele Severino, che non sarebbe stato d’accordo con lei, sosteneva che oramai la politica è sussunta nella tecnica e ha un ruolo del tutto marginale. Sparecchia un tavolo già apparecchiato…
è una posizione sintomatica del Novecento, come quella di Heidegger, nelle sue infinite derivazioni. Ma la tecnica apre solo infinite varianti alle possibilità sviluppo dell’umano. Il rapporto è, ancora una volta, un rapporto mezzi-fini. Questo se vogliamo tenere l’umano come punto di riferimento e non concederci a metafisiche astratte.

Oggi, quindi, lei non vede un eccesso di tecnica?
Vedo che stiamo usando gli strumenti della tecnica non in eccesso, ma per difetto. Li stiamo usando al di sotto delle loro potenzialità. Questo è un problema che riguarda la politica, il diritto, l’etica ma non riguarda la tecnica in quanto tale. Sono grandi sciocchezze quelle che si sono anche sentiti sulla pandemia come risposta della natura che è stata forzata e violata. Sciocchezze. Le epidemie ci sono sempre state, sono sempre state globali ma si diffondevano con minor velocità e rapidità. Un tempo, gli uomini morivano come insetti sotto il peso della “natura”.

Certamente, nella storia, le epidemie si determinano in un rapporto, che è complesso e complicato, tra uomo e natura. Ma attenzione: il rapporto uomo-natura è sempre stato complesso e complicato, anche quando avevamo una capacità di incidere sulla natura infinitamente minore di quella che abbiamo oggi.

Che cosa cambia, allora?
Cambia che, oggi, siamo in grado di fronteggiare meglio queste tragedie che fanno parte della storia dell’umanità e della specie umana sulla terra. Le epidemia fanno pare della biologia dell’umano all’interno della biologia complessiva del pianeta.

Rischiamo l’anomia, l’assenza di regole. L’anomia è il demonio che ci minaccia, l’anomia è figlia della mancanza di pensiero

Aldo Schiavone

Nella postilla a Progresso lei insiste su un errore capitale: inquadrare l'epidemia attraverso metafore belliche…
L'abuso che si è fatto in Italia della metafora della guerra per descrivere la nostra condizione (la prima linea, il fronte, la trincea, le retrovie, il nemico, la battaglia, le armi, i caduti… e così via) è stato tra i fenomeni culturali più fuorvianti e diseducativi di questi mesi. È vero che entro certi limiti è inevitabile il ricorso al vecchio (la guerra) per spiegare il nuovo (la difficile medicalizzazione dell'epidemia). Ma oltrepassata una certa soglia, l'insistere sull'analogia aiuta solo a non capire, a impigrire mentalmente, a e a non rendersi conto della realtà da fronteggiare

L'epidemia non nasce su un campo di battaglia, ma in uno di quei punti d'intersezione fra il naturale e il culturale umano, che sono tuttora nevralgici per la nostra civiltà, e che, se trascurati, possono mettere persino il gioco la nostra esistenza. Ce n'è abbastanza per spaventarsi. Ma non siamo in guerra. Le paure cambiano: anch'esse sono solo storia.

Politica e nuovo umanesimo

Lei ha spesso insistito sulla biforcazione tra storia culturale e storia biologica. Siamo a un punto di svolta, forse, ma abbiamo ancora troppe resistenze “romantiche”? Un tema che affrontava in Storia e destino (Einaudi) e che ritorna in Progresso

Dobbiamo riflettere, ma riflettere davvero, sul passaggio che noi stiamo vivendo in questa età. E cioè il passaggio da uno da una storia evolutiva della nostra specie – che era controllata soltanto dai meccanismi interni all' evoluzione, quindi era affidata alla biologia e al nostro retroterra biologico – a qualcosa di diverso.

Oggi, per la prima volta dopo appunto un periodo enormemente lungo, questa storia evolutiva sta smettendo di essere un presupposto immodificabile e sta per diventare un risultato delle nostre scelte. Questo perché, nel giro dei prossimi decenni non dei prossimi secoli, avremo una capacità inedita di incidere sulla nostra struttura e sulla forma biologica delle nostre vite e di modificarla. Questo aspetto della “tecnica” pone, naturalmente, problemi enormi problemi di eguaglianza, di gestione politica della potenza che deriva da questa possibilità, ma poi ci pone questo grande problema. Un potere dovuto all' accrescimento della nostra potenza: come umani avremo presto il potere di avere tra le mani il nostro destino biologico.

Saremo quello che vorremo essere…
Proprio così: non saremo più quello che la storia evolutiva ci obbliga a essere, ma potremo decidere forme e strutture del nostro essere biologico. Non fare i conti con questa evidenza che ci viene incontro è un altro aspetto di quel vuoto di politica cui facevamo cenno pocanzi. Questa è la sfida: come controlliamo il potere della tecnica? Chi lo controllerà, come? Orientandolo in quale direzione? Verso l’umano o contro l’umano?

Non vede pericoli?
Al contrario, vedo grandi pericoli, rischiamo moltissimo: ma questi rischi nascono dall’aumento della nostra potenza. Sono un fatto di crescita, non di arretramento. La risposta a questi pericoli non è una sterile discussione sul depotenziamento, peraltro impossibile, della tecnica. La risposta è il potenziamento delle forme di controllo razionale. Si risponde aumentando la razionalità della specie, non alimentando ciechi istinti irrazionali e irragionevoli. L’etica, il diritto, la politica sono sempre stati strumenti per aumentare questa razionalità della specie. La crisi che li investe, però, non è di poco conto. Ed è prevalentemente una crisi di pensiero… Servirebbe una globalizzazione dell’etica e della democrazia. Questa è la grande sfida che ci aspetta.

Un nuovo umanesimo, quindi? È come se i saperi fossero rimasti indietro, sia nella loro dimensione regolativa, sia in quella immaginativa, rispetto ai frutti dei saperi stessi…
Credo che tutto il globo, non solo l’Occidente, soffra di un enorme deficit di pensiero sull’uomo e, di conseguenza, un deficit di umanesimo. Pensiamo solo a quale incredibile potenza di pensiero ha accompagnato la rivoluzione industriale due secoli e mezzo fa. Dall’ultimo quarto del Settecento all’Ottocento, la rivoluzione industriale è stata accompagnata da una potenza di pensiero poderosa: dall’economia classica a Adam Smith fino a Marx, da Kant a Nietzsche, o il pensiero giuridico di Savigny. Quella rivoluzione che ha cambiato il mondo è stata accompagnata da un pensiero che ha dato forma al mondo. Oggi? Oggi ci troviamo di fronte a una rivoluzione tecnologica e biologica non meno importante di quella di due secoli fa ma non abbiamo pensiero.

Per criticare la forma capitalista bisogna accettarla fino in fondo. Marx era naturalmente il più feroce critico del capitalismo, ma è stato anche con un suo grande apologeta. Diceva: da qui bisogna partire, è inutile pensare quelle che lui chiamava «robinsonate» e tornare a Rousseau. Dobbiamo partire dall' organizzazione capitalistica per andare più avanti. non per andare più indietro, non per immaginare di farne a meno ritordando all'Arcadia

Aldo Schiavone

Perché non si è prodotto un pensiero?
​Questa è la grande domanda, a cui non so dare risposta. Ma è un problema che tocca tutto il mondo. Pensiamo alla Cina: esiste una riflessione, un pensiero a cui ci possiamo aggrappare? Nulla. Pensiamo a che cosa è stato il pensiero democratico americano, dal New Deal a Rawls… Adesso? Adesso è balbettio inconcludente e insignificante. Questo è il grande problema: la povertà di pensiero si traduce in povertà della politica e la povertà della politica significa mancanza di controllo del potere che abbiamo acquisito.

Criticare il capitale. ma partendo dal capitale

A questo punto rischiamo uno sviluppo (tecnico) senza progresso (umano)…
Rischiamo l’anomia, l’assenza di regole. L’anomia è il demonio che ci minaccia, l’anomia figlia della mancanza di pensiero.

Papa Francesco ha lanciato su questo terreno la sua sfida di etica globale, in particolare con l’ultima lettera enciclica Fratelli tutti
Le posizioni del Papa sono giuste e condivisibili e vanno nella direzione giusta. Ma c’è un elemento che i non condivido: al fondo del pensiero del Papa mi pare di scorgere, a volte, un elemento “terzomondista” e di critica del capitalismo, ma da posizioni arretrate. Dobbiamo criticare il capitale, ma dobbiamo farlo da posizioni avanzate non dalla retroguardia. Prima o poi troveremo un altro modo di produrre e distribuire le ricchezze…

Il capitale è una forma storica…
Ha avuto un’origine, ha le sue trasformazioni e avrà il suo declino e finirà. Su questo non ci sono dubbi. Non vorrei che la critica al capitale di Papa Francesco diventasse altro: critica al progresso tecnologico e alla scienza.

Una distanza rispetto alla modernità non aiuta?
Per criticare la forma capitalista bisogna accettarla fino in fondo. Marx era naturalmente il più feroce critico del capitalismo, ma è stato anche con un suo grande apologeta. Diceva: da qui bisogna partire, è inutile pensare quelle che lui chiamava «robinsonate» e tornare a Rousseau. Dobbiamo partire dall' organizzazione capitalistica per andare più avanti. non per andare più indietro, non per immaginare di farne a meno ritordando all'Arcadia. Capisco benissimo le posizioni del Papa e la sua critica al capitalismo, che oggi fa ormai soltanto lui, è benvenuta. Una critica che è benvenuta se ci ricorda che il capitalismo è un prodotto storico, che ha creato grandi tragedie ma ha anche innescato straordinari processi di sviluppo, e come tale finirà e ci sarà altro.

Resta una domanda: che fare?
Pensare.

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