Adozioni e affidi familiari, è risaputo, non sempre vanno a buon fine. Ma la storia di Vitor Dessì, giovanissimo brasiliano trapiantato in Sardegna da anni, è di quelle che aprono il cuore e invogliano a non arrendersi in questo percorso che a volte risulta tortuoso. E molto impegnativo per tutti. La sua storia ha tanto in comune con quanti sono nati e cresciuti nelle favelas brasiliane. Lui, originario di San Paolo, è andato a vivere sin dai primissimi anni a Rio de Janeiro prima di essere trasferito in un orfanotrofio e successivamente venire adottato da due famiglie di Cagliari. Con lui, anche quattro tra fratelli e sorelle.
Vitor, la tua cadenza marcatamente sarda non maschera del tutto quella portoghese.
«Ormai ho trascorso più tempo in Sardegna che in Brasile. Qui ho imparato l’italiano, qui ho dato una svolta alla mia vita. Ma la saudade è dura a morire: spero di poter presto tornare nella mia terra per vedere i miei luoghi d’origine, e magari incontrare qualche amico che ho lasciato da quelle parti. Vorrei andarci con una mia sorella, che però è ancora troppo piccola».
Hai un vissuto molto complesso alle spalle.
«Come la maggior parte delle persone che abitano nelle favelas. Milioni di uomini e donne. Storie di violenze e privazioni, ma conservo anche dei bei ricordi. Ci accontentavamo del poco che avevamo. Giocavamo scalzi per strada e, non potendo permetterci un pallone di cuoio, ci aggiustavamo con quello che trovavamo: un mucchio di stracci o giornali modellati sino a prendere una forma quasi sferica, oppure un mango che prendevamo a calci sino a quando si faceva in mille pezzi e ci colorava i piedi di rosso. Tutti i grandi calciatori brasiliani hanno questo in comune: da Pelè a Ronaldo il Fenomeno, da Ronaldinho a Romario, da Cafu a Neymar. Il piede diventa più sensibile. E quando ti regalano le prime scarpette, tutto diventa più facile. Ma una volta arrivato in Italia, ho smesso di giocare a calcio perché mi ricorda i momenti peggiori della mia infanzia. Ora mi dedico alla pallavolo, come mio fratello maggiore».
Nella fase della tua pubertà non sono mancati i problemi. Li hai superati?
«Il vissuto ti segna e talvolta ti fa andare oltre certi limiti. La rabbia talvolta esplode all’improvviso e si commettono errori che ci complicano l’esistenza. La mia vita è radicalmente cambiata quando sono entrato nella comunità “Corte Antica” di Suelli, a 50 chilometri da Cagliari. Oggi mi sento un uomo nuovo, e lo dico senza retorica. Anche gli studi scolastici vanno bene».
Che cosa è accaduto nella struttura residenziale per minori gestita da psicologi, pedagogisti ed educatori della Virginia Cooperativa?
«L’inizio è stato difficile. Mi sono trovato catapultato in un ambiente nuovo, con regole ben precise e momenti che scandiscono le giornate. Ma in poco tempo ho capito che qui potevo stare finalmente bene. Ho imparato l’importanza di certi valori, ho trovato alcune figure di riferimento che mi stanno facendo crescere. Le esperienze del passato mi hanno segnato, sono maturato più velocemente rispetto ai miei coetanei che ho conosciuto in Sardegna. I brutti ricordi mi aiutano a non perdere di vista i miei obiettivi. Qui gli adolescenti pensano moltissimo alle cose materiali: il cellulare, lo scooter oppure un viaggio indimenticabile. Io ho avuto il mio primo smartphone un paio d’anni fa. E mi va bene così».
Pochi giorni fa hai festeggiato il tuo 18esimo compleanno. Come è stato?
«Un evento semplice e allo stesso tempo indimenticabile. Una tappa importante della mia vita, che presto mi consentirà di andare a vivere per conto mio».
Tutto questo grazie al progetto “Prendere il volo della Regione Sardegna, che consente al minore di uscire dalla comunità monitorato dagli operatori della Cooperativa, continuando a studiare sino al diploma, seguito da un tutor, oppure iniziare un tirocinio. La finalità è quella di vivere in autonomia.
«Sì, devo iniziare ad assumermi le mie responsabilità. Senza vanificare ciò che ho imparato in questi anni».
A proposito di progetti, ne hai uno molto ambizioso.
«Quando terminerò il liceo, a Cagliari, vorrei iscrivermi al Dams di Roma. Il mio sogno è quello di diventare regista».
Per il momento ti sei messo in mostra in un laboratorio di film-making tenuto dal regista Massimo Guglielmi (che ha collaborato con maestri come Sergio Leone, Nanni Loy, Ettore Scola, Michelangelo Antonioni ed Ermanno Olmi). Ce ne parli?
«Ho scritto una sceneggiatura che è stata tra quelle prescelte per girare un cortometraggio. Parla delle violenze subite dalle donne nelle favelas. Si intitola “Il filo di Arianna”, in memoria di una ragazza che ci ha lasciato troppo presto. Una storia personale, triste, ma che induce alla riflessione. È una piccola testimonianza di ciò che hanno visto i miei occhi da bambino. Ho pure recitato una parte nel film, che sarà presentato in anteprima a Cagliari il prossimo 26 novembre. Spero che sia soltanto l’inizio».
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