Nel 2017 sono stato per la seconda volta nella basilica della Natività di Betlemme. Eravamo tutti in coda, in attesa del nostro turno per toccare la stella dentro la grotta che, secondo la tradizione, coincide con il luogo dove è nato Gesù. Adesso invece siamo solo in tre, timorosi che la nostra presenza possa rompere lo strano silenzio che dai marmi arriva fino ai mosaici bizantini del XII secolo.
Nel transetto nord, uno dei mosaici raffigura l’incredulità di Tommaso. Gli Atti degli apostoli raccontano che Tommaso fosse stato assente quando Gesù era apparso ai discepoli dopo essere risorto. A nulla era valsa l’insistenza di quanti avevano assistito al miracolo. Lui ci avrebbe creduto soltanto se avesse messo le dita nelle ferite procurate dai chiodi e in quella del costato inferta dalla lancia. Il mosaico mostra la scena in cui è Gesù stesso a spingere l’indice dell’incredulo dentro la pelle. Sulla sommità è ben leggibile, grazie alla preziosa opera di recupero condotta qualche anno fa dalla Piacenti spa di Prato, l’espressione Pax Vobis. È il saluto beneaugurante con cui il vangelo afferma che Cristo sia entrato nel cenacolo dopo la morte. È lo stesso che da più parti oggi si invoca, inutilmente, su Israele e sulla Palestina.
Dopo il Covid, un’altra crisi per il turismo religioso
Il periodo del Covid aveva già messo a dura prova i cristiani palestinesi che vivono di turismo religioso soprattutto in Cisgiordania. Secondo l’Ufficio centrale di statistica israeliano complessivamente sono 185 mila quelli presenti nel paese, il 2% della popolazione, con una concentrazione differente in ogni territorio. A Betlemme ad esempio, su circa 30 mila abitanti, soltanto un quinto è di fede cristiana. Ma la fonte principale di reddito deriva dai pellegrinaggi di cui beneficiano tutti, senza distinzioni di credo. Rony Tabash ha un negozio di souvenir e oggettistica sacra nella piazza della Natività che si trova lì da tre generazioni.
La sua attività dà lavoro a una ventina di famiglie che forniscono prodotti realizzati con legno di ulivo. «Odora questi rosari» mi dice mettendomi sotto il naso delle coroncine. «Sono molto diversi da quelli fatti in Cina. Poi sei libero di andare a fare acquisti da un’altra parte, dove magari fanno finta di essere cristiani…». Tra le poche botteghe ancora aperte ce n’è una dall’altro lato della piazza in cui ogni mattina l’esercente cerca di farsi promettere da me che acquisterò qualcosa. Quando nel 2005 ero venuto per la prima volta a Betlemme, il pulmino su cui viaggiavamo fu letteralmente circondato da decine di bambini a mano tesa. Adesso di quei bambini non c’è traccia. Anche loro sanno che dopo il 7 ottobre 2023 è cambiato tutto.
Dar Al-Majus, la casa dei Magi nel cuore di Betlemme
La guerra scaturita in seguito all’incursione di Hamas dell’anno scorso è stato uno spartiacque non tanto perché ha reso pericoloso recarsi in Israele. Da un lato ha dato l’assist a Israele per un’ennesima stretta sulla sicurezza, dall’altro ha costretto molte compagnie low cost a cancellare i voli che in precedenza atterravano principalmente sul Terminal 1 dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Chi arriva oggi sul più costoso Terminal 3 trova un deserto costellato dalle foto degli ostaggi israeliani ancora tenuti prigionieri a Gaza. Ma non bisogna pensare che il Paese sia fermo.
Persino Betlemme, nonostante la penuria di visitatori, continua a brulicare di vita all’aperto e di vita nascosta. Le vie lontane dal centro all’apparenza potrebbero sembrare quelle di una qualsiasi cittadina rumorosa del sud Italia o del sud del mondo. Bisogna andare poi nella parte storica, ad esempio in Star Street, per imbattersi in porte chiuse e case disabitate. Lungo il tragitto, le luminarie spente a forma di stella cometa si allungano dalle facciate per ricordare che questo fu il tragitto percorso da Maria e Giuseppe in cerca di un riparo la notte di Natale. Se tornassero in questi giorni uno dei pochi luoghi di riparo che troverebbero sarebbe la guest house Dar Al-Majus, in arabo la “casa di Magi”, situata nelle vicinanze di Manger Square, cioè l’epicentro della città. Dar Al-Majus non è soltanto una struttura ricettiva. Dal 9 giugno 2022 è soprattutto un centro culturale che propone sul territorio diverse iniziative a beneficio delle persone che ci vivono.
Realizzata dalla Custodia di Terra Santa con l’apporto fondamentale dell’Associazione Pro Terra Sancta e di altri partner, l’edificio è frutto del recupero di un’antica residenza storica affidato agli architetti palestinesi Elias & Yousef Anastas. Il suo interno, su tre livelli, ruota attorno all’hosh (cortile) e si apre su sale multifunzione, uno store e uffici dove lavorano i cooperanti di Pro Terra Sancta.
Start-T, un progetto per aiutare le persone a restare
Dar Al-Majus è un esempio di come sia possibile convogliare le risorse in una progettazione virtuosa durante tutte le sue fasi. Per avere un’idea di quante siano state le realtà che hanno contribuito alla sua costruzione, a pianterreno c’è un dipinto del pittore romagnolo Franco Vignazia sormontato da dodici stelle, tante quanti sono stati i donatori. Oggi il centro culturale rappresenta un luogo di solidarietà concreta per la comunità locale, ma lo è stato anche nel periodo del Covid, quando ha permesso a vari artigiani del posto di avere un guadagno collaborando alla sua ristrutturazione. Anche ora che, a qualche centinaio di metri dal suo ingresso il piazzale della basilica della Natività resta vuoto, non smette di cercare nuove opportunità per aiutare i betlemiti a non fuggire via. Lo fa ad esempio con il progetto Start-T, un’iniziativa portata avanti dall’associazione Santa Caterina da Siena con il sostegno della Regione Emilia-Romagna che vuole aumentare la capacità di “resilienza” delle persone che vivono nelle aree di Betlemme e Beit-Sahour. Quest’ultimo è il nome del villaggio nelle vicinanze in cui i pastori avrebbero ricevuto l’annuncio di un angelo circa la nascita del Messia. Il sito è stato acquistato dai francescani nei primi anni del Novecento e, dopo gli scavi archeologi condotti tra il 1951 e il 1953 da padre Virgilio Corbo, sono stati portati alla luce i resti di un insediamento agricolo risalente al primo secolo e di un monastero bizantino fondato lì intorno al IV-V secolo.
Che cosa insegna il sito archeologico di Beit-Sahour
Daniela Massara (foto sotto, ndr), archeologa e curatrice del Terra Sancta Museum di Gerusalemme, ci guida nel “campo dei pastori” di Beit-Sahour per illustrarci il lavoro che sta svolgendo con un gruppo di allievi, un’attività prevista all’interno del progetto Start-T. Il lavoro verte sulla figura del monaco e si tradurrà in una mostra temporanea che aiuti i visitatori a comprendere sé stessi e le proprie origini: «Il monaco innanzitutto è un uomo che ha un desiderio di felicità e di pienezza, che ha incontrato la risposta a questo desiderio, tanto da fare esperienza che è possibile vivere l’istante nell’eterno» sottolinea.
La mostra sarà anche l’occasione per ricordare che ci sono state epoche della storia in cui l’appartenenza a religioni differenti non è stata fonte di conflitto. «Padre Michele Piccirillo (archeologo francescano che ha partecipato a importanti scavi soprattutto in Giordania, ndr) ha scritto un articolo sulle chiese omayyadi» spiega Massara. Evidentemente un ossimoro, visto che accosta due termini antitetici. «Serve a far capire quanto la cultura musulmana delle famiglie omayyadi fosse aperta verso i cristiani. E lo è stata fino all’VIII secolo quando, con l’arrivo gli abbasidi, l’Islam decise di reprimere il cristianesimo». La sezione multimediale del Terra Sancta Museum, già visitabile insieme ad altre sale situate nel convento della flagellazione, propone un excursus affascinante delle vicende che hanno interessato Gerusalemme dalla sua fondazione ai giorni nostri. Una tappa essenziale per quanti verranno, prima a poi, da queste parti.
Le “pietre vive” della Terra Santa, ieri come oggi
Tra gli obiettivi che intende conseguire Start-T c’è anche quello di «far sì – recita il progetto – che questa terra di ricchissime tradizioni non sia solo meta di nostalgici pellegrinaggi, ma sia un territorio vivo, in grado di manifestare appieno la profondità e la storia dei luoghi attraverso le storie di chi li abita: le “pietre vive” di Palestina». Wafà Farid Musleh è la presidente dell’associazione Living Stones che sta nascendo anche grazie al progetto: «Dobbiamo lavorare sulla consapevolezza della gente affinché capisca l’importanza di rimanere in Terra Santa» sostiene. Talvolta le capita di incontrare persone al di fuori della Palestina che si stupiscono nel saperla cristiana, tanto da chiederle quando sia avvenuta la sua conversione. Non sanno che i seguaci di Cristo in Palestina sono nati ben prima che in Occidente. Il che non ne garantisce la sopravvivenza né li preserva dal rischio di estinzione: «La maggior parte dei cristiani sta emigrando per trovare una vita migliore, una vita sicura, una vita stabile per sé e per i propri figli. Quello che sta succedendo in queste circostanze è lo stesso che hanno vissuto gli apostoli quando Gesù sembrò abbandonarli. Le persone che vivono qui hanno bisogno di qualcuno, come ad esempio gli amici italiani che sono venuti a trovarci in questi giorni (il riferimento è a una delegazione del Santa Caterina da Siena, ndr), che dica loro che non sono soli. Che annaffi il fiore della speranza. È quello che faremo anche noi. Indipendentemente da ciò che siamo – cristiani, musulmani o ebrei – questa è la Terra Santa».
Un giorno, quando diventerete padri e madri…
Ne è convinto anche Jiries Qumsiyeh, marito di Wafà che ricopre il ruolo di direttore del ministero del Turismo palestinese: «Né noi né gli ebrei lasceremo mai questa terra».
La visita degli «amici italiani», specialmente nei mesi del 2024 in cui a Betlemme la consueta presenza di pellegrini e turisti era venuta meno, lo ha sorpreso positivamente. «L’abbiamo considerata una sfida per noi e un messaggio di incoraggiamento affinché le persone di tutto il mondo tornino a trovarci. L’abbiamo considerato soprattutto un segno di che cosa sia la vera amicizia, che si manifesta nei momenti di crisi e di difficoltà».
Difficoltà a cui lo stesso Qumsiyeh non è immune, pur essendo un alto funzionario dell’Autorità nazionale palestinese – Anp. A causa delle minori entrate dovute al drastico calo dei flussi turistici, gli hanno ridotto lo stipendio che, fra l’altro, non viene pagato dal mese di marzo. Eppure Jiries Qumsiyeh non ha parole di astio per nessuno, neppure per il governo guidato da Benjamin Netanyahu.
Anzi, manifesta un moto di pietà per i tanti giovani israeliani che a partire dal 7 ottobre dell’anno scorso sono stati costretti a uccidere, spesso in maniera indiscriminata. «Un giorno, quando diventeranno padri e madri, quando andranno a fare il mestiere dell’ingegnere o del professore, come potranno convivere con quello che hanno fatto?».
A conferma delle sue parole, arriva il rombo di un F-35 che si sta dirigendo presumibilmente sul cielo di Gaza. Chissà se nel cuore del pilota c’è spazio per sentimenti simili a quelli di Qumsiyeh.
La foto di apertura, di AP Photo/Mahmoud Illean/LaPresse, mostra la Basilica della Natività. Le altre foto di questo servizio sono dell’autore.
Nessuno ti regala niente, noi sì
Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.