Tehseen Nisar

«Vi racconto perché molti miei connazionali scappano dal Pakistan»

di Luigi Alfonso

La ricercatrice pakistana, originaria di Karachi, da tre anni vive a Palermo. Sulla tragedia di Cutro dice di provare «un grande dolore»: la vicenda della morte di Shahida Raza, ex capitana della nazionale femminile di hockey su prato, ha scioccato l'intero Paese. Che sta attraversando un periodo storico di enormi cambiamenti, sociali ed economici, ma deve fare i conti con la mentalità patriarcale che ancora è presente in molte province

«Una parte della nostra anima è morta dentro di noi il 26 febbraio scorso». È il primo commento di Tehseen Nisar sulla tragedia di Cutro, che è costata la vita anche ad alcuni suoi connazionali. La ricercatrice pakistana originaria di Karachi, che da tre anni vive con suo marito a Palermo, ha girato l’Europa da nord a sud. «Mi sento una privilegiata, rispetto a chi è costretto a salire sui barconi della speranza per cercare fortuna o a inseguire chissà quali sogni», sottolinea lei. «Nella mia vita sono stata fortunata perché ho potuto fare regolarmente tutti i miei studi sino all’università, laureandomi in Relazioni internazionali, e poi partecipando all’Erasmus che mi ha portato dapprima nei Paesi scandinavi e poi in Italia, passando per Padova e Roma (dove ha vissuto per dieci anni, ndr) prima di arrivare in Sicilia. Però, come accade ovunque, non tutti hanno queste opportunità. Il Pakistan, oltre tutto, è un Paese di grandi contraddizioni».

La strage avvenuta sulla costa calabrese ha fatto parlare tutto il mondo. Quali sono state le reazioni dei suoi familiari e amici?

«Sono tutti sotto shock, e non solo per le proporzioni di un disastro che è entrato nelle case attraverso i notiziari dei telegiornali. Ho avuto modo di parlare con alcuni impiegati della nostra ambasciata a Roma, e pure loro sono devastati dal dolore. A Cutro è morta anche Shahida Raza, ex campionessa e capitana della nostra nazionale femminile di hockey su prato. Trattandosi del nostro sport nazionale, era molto conosciuta. Aveva 33 anni ed era partita dalla sua città, passando per l’Iran e la Turchia, perché voleva arrivare in Italia e capire se qui ci fossero le terapie in grado di aiutare suo figlio, un bimbo paralizzato a causa di una malattia neurovegetativa. Per fortuna, quella creatura era rimasta con i nonni e si è salvata».

Una storia simbolica per la giornata di ieri.

«Ecco, proprio in occasione della ricorrenza dell’8 marzo, ho parlato a lungo di Shahida durante un convegno in un liceo di Termini Imerese: per me è stata una giornata dolorosa, di lutto, che ho interamente dedicato a Shahida e a tante altre donne coraggiose come lei».

Lei si considera una privilegiata perché la sua famiglia era piuttosto agiata e ha potuto aiutarla. Ma perché molti suoi connazionali scappano dal Pakistan?

«È difficile trovare una sola risposta a questa domanda. Il nostro è un Paese di grandi contraddizioni, come dicevo. Perché è vero che stiamo attraversando un momento di grande espansione economica, con enormi opportunità di lavoro, ma abbiamo una popolazione di oltre 230 milioni di abitanti e non tutti hanno trovato occupazione. Ci sono enormi sacche di povertà. Ma c’è dell’altro: alcune province, le più antiche, quelle che custodiscono la cultura tradizionale pakistana, conservano una mentalità maschilista. Non tutti gli uomini lo sono, questo va detto, però la società è prevalentemente patriarcale e per le donne da quelle parti è difficilissimo vivere, assaporare la libertà di pensiero e in tutti i campi».

In Italia si respira un’altra aria.

«Vivendo in Occidente, ho potuto assorbire una cultura differente che mi ha aperto al mondo. Il Pakistan negli ultimi tempi è stato travolto da un vortice fatto da un mix di capitalismo e senso di ribellione di una buona fetta del popolo. È un periodo di grandi trasformazioni sociali, non solo economiche, tuttavia in certi territori permane una sorta di mentalità feudale che opprime non solo le donne ma anche gli uomini. Coloro che gestiscono il potere, talvolta non accettano il cambiamento dello scenario internazionale. C’è molto da fare per compiere un passo verso l’emancipazione, ma non dobbiamo commettere l’errore di generalizzare: non siamo tutti uguali».

Che cosa intende dire?

«Che c’è il rischio di mettere tutti sullo stesso piano, e non è giusto. Molti uomini che conosco hanno una mentalità aperta. Allo stesso tempo, molte donne devono capire che bisogna sollevare la testa per farsi rispettare, anche se comporta dei sacrifici. Attraversiamo un periodo storico complesso e problematico per tante persone, ma non tutti affrontano le situazioni allo stesso modo. Diventa difficile giudicare ciò che passa per la mente della gente. Ognuno di noi ha una sua prospettiva ma anche la propria sensibilità, un certo tipo di educazione e di cultura, il proprio carattere. D’altronde, anche in Italia accadono brutte vicende e molte donne sono vittime di abusi e violenze, eppure siete più avanti sotto molti aspetti. Dobbiamo lavorare insieme per cercare di superare una mentalità che appartiene al passato».

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