«Sento come una sorta di prurito nell’anima. Lo sento spesso, a dire il vero, ma non so dargli un senso. Né un nome». A parlare così è Andrea, protagonista del romanzo Testa di Mango (Mursia), nuovo lavoro della scrittrice Elena Moretti, vincitrice nel 2017 del Premio Rtl 102.5 e Mursia romanzo italiano con il libro Quasi a casa.
Andrea è un ragazzo di quindici anni – un ribelle con una cresta color polpa di mango – che, dopo una bocciatura, viene mandato da Milano a passare l’estate al mare, in Abruzzo, dalla zia materna. Là, da piccolo teppista che se la prende con i venditori ambulanti – perché lui i «marocchini» non li sopporta, con la loro cultura troppo differente da quella italiana – diventerà un giovane aperto alla diversità, all’altro. E all’amore. Tutto questo anche grazie all’incontro con Mamadou, un gigante senegalese che gli farà da maestro e da guida nella scoperta di un nuovo sguardo sul mondo.
Moretti, il suo potrebbe essere definito un romanzo di formazione?
Assolutamente. Si parla della maturazione di un ragazzino, quindi rientra pienamente nella definizione.
Sono in tanti i ragazzi nella situazione di Andrea?
Sinceramente i ragazzi che ho conosciuto sono migliori di lui, però in realtà non è una condizione così rara. Andrea è un po’ vittima di un egocentrismo infantile che non è ancora passato, ha l’idea di essere magicamente migliore di tutti quanti, per partito preso: meglio delle ragazze, meglio degli immigrati, meglio degli africani, meglio degli artisti, meglio degli adulti. Di fatto, tuttavia, non ha nessuna qualità. In realtà ho conosciuto molti più ragazzini che non si sentono veramente nessuno, vivono una condizione di insicurezza e di mancanza di autostima.
Anche l’atteggiamento da bullo di Andrea, però, può essere sintomo di insicurezza.
Certo. Ma lui per primo se ne rende conto. Si sente come imbottito nella gommapiuma e ogni tanto gli prude l’anima. Lui percepisce tutto questo, ma non sa metterlo a fuoco. Ed è questo il centro del romanzo, il suo percorso per comprendere meglio questa sua interiorità, che è molto più complessa di quello che sembra all’inizio.
Il cambiamento di Andrea avviene a seguito dell’incontro e della conoscenza con l’altro. Quant’è importante il contatto diretto col mondo per la formazione dei ragazzi?
Tantissimo, in qualsiasi campo. L’impressione che ho attualmente è che manchi la possibilità di fare esperienze, che non siano nella scuola o nello sport. Difficilmente i giovani riescono a uscire da questi binari per cominciare ad annusare un po’ il mondo da soli, sono sorvegliatissimi fin da bambini. Ci sono poche occasioni per toccare con mano tante realtà. Io sono del ‘77, quando ero adolescente era permesso fare volontariato anche da minorenni, così ho cominciato a fare esperienze con i disabili. È stato un momento fondamentale nella mia vita. I miei figli non hanno potuto fino ai 18 anni. I ragazzi vengono indirizzati verso esperienze costruite, apparentemente adatte a loro. In realtà anche quello che non sembra adatto a te, che può in qualche modo turbarti, ti fa crescere.
L’impressione che ho attualmente è che manchi la possibilità di fare esperienze, che non siano nella scuola o nello sport. Difficilmente i giovani riescono a uscire da questi binari per cominciare ad annusare un po’ il mondo da soli, sono sorvegliatissimi fin da bambini.
Elena Moretti
Andrea e i ragazzi come lui oltre a essere carnefici sono quindi anche vittime di una società troppo protettiva?
Il messaggio che volevo dare è che Andrea fino a quel momento non aveva mai fatto nulla; non sapeva allacciarsi un grembiule, non sapeva scaldare una focaccia senza bruciarla. Non si era mai messo alla prova. E non avendo mai sperimentato di persona era pieno di preconcetti.
Lei riporta molte storie di migranti, come quella dei colleghi di Andrea, Princess, albina africana adottata da una coppia italiana, e Cheikh, un ragazzo senegalese che, per arrivare in Italia, ha attraversato il deserto, la Libia e il Mediterraneo. Come si è informata per scriverle?
Leggo VITA da un sacco di anni; tanti elementi del percorso di Cheikh li ho presi da articoli e storie sulle migrazioni. Poi ho parlato con persone migranti, mi sono fatta raccontare alcuni elementi del loro viaggio, il loro percorso. La tematica degli albini africani, poi mi ha sempre interessata, così come quella del ragazzino adottato che poi ha una certa crisi d’identità, quindi ho sempre letto molto sull’argomento. Il carattere dei personaggi, però, è spesso preso da quello di adolescenti che ho conosciuto, anche se non riporto mai le storie reali.
Chiunque esista ha il diritto di essere personaggio di un romanzo. E di vedersi rappresentato
Elena Moretti
Nel libro, oltre all’incontro con le persone straniere, c’è un tema più generale di incontro con la diversità, quindi anche con la disabilità.
Mi piace tantissimo il concetto di diversità, l’ho sempre trovato molto affascinante. Io sono una farmacista prestata alla scrittura, quando ho iniziato nel 2007 facevo fan fiction (storie ispirate da ambientazioni e personaggi già esistenti, ndr). C’erano sempre personaggi perfetti a livello fisico, che un po’ mi stufavano, non mi sembravano reali, forse anche per le mie esperienze di volontariato con le persone disabili. Attualmente in tutto quello che scrivo è quasi un must proporre dei personaggi che non siano fisicamente perfetti; nel mio secondo romanzo, per esempio, il protagonista aveva perso entrambe le gambe, quindi aveva una disabilità molto impattante, che lui stesso non accettava. La casa editrice, all’epoca, ha storto un po’ il naso. Non volevano metterlo sulla copertina, perché la disabilità «tira» nei libri solo se sono storie vere. Per le storie di fantasia, è come se i lettori non fossero pronti. Io però mi sono impuntata: chiunque esista ha il diritto di essere personaggio di un romanzo. E di vedersi rappresentato.
Quant’è importante per i ragazzi trovare una figura come quella che Mamadou diventa per Andrea, un adulto di riferimento esterno alla famiglia?
Direi tantissimo. I genitori fanno molto quando sei bambino, ma quando sei adolescente lo sguardo vorrebbe andare oltre. Per me, per esempio, le figure di riferimento esterne alla famiglia sono state fondamentali, mi hanno davvero dato tanto. I miei figli, che sono del 2000 e del 2002, non ne hanno trovate e mi è sempre dispiaciuto per loro, perché io sono stata molto aiutata nel mio percorso di crescita. Vedo però che i ragazzi sono sempre più trattenuti e penso quindi che diventi sempre più complicato trovare figure incisive.
Forse anche perché manca la parte di vita comunitaria che invece lei ha ben descritto nel suo libro, quando parla della comunità senegalese in Italia. Può l’incontro tra culture aiutarci a imparare – o reimparare – qualcosa, anche dello stare insieme?
Certo. Noi abbiamo un po’ una boria – che poi è la boria di Andrea – di avere la cultura migliore. In realtà ci mancano tanti aspetti, che magari i nostri nonni avevano e noi poi abbiamo perso. Abbiamo guadagnato tante cose meravigliose, certe forme di rispetto che prima non c’erano, però forse dovremmo recuperare una dimensione di vita comunitaria e un po’ di buon senso collettivo. E perdere un po’ di individualismo.
In copertina Elena Moretti, foto della Casa editrice Mursia
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