Gabriele Segre

«Un’identità plurale è la chiave per la convivenza»

di Marco Dotti

La convivenza non è un valore universale. Prima di essere un valore, infatti, la convivenza è una necessità. Per questo, spiega il direttore della Vittorio Dan Segre Foundation va conquistata attraverso un salto di paradigma: cognitivo, culturale, relazionale

Tra le sfide più importanti del nostro tempo, c’è sicuramente quella della convivenza. Ma che cosa significa “convivere”? Lo spiega in questa intervista apparsa sul numero di ottobre di Vita Gabriele Segre, studioso di public policies, direttore della Vittorio Dan Segre Foundation, istituzione che da anni lavora sui tempi della convivenza, dell’identità e del conflitto.

Viviamo in un mondo sempre più complesso, dove ogni frammento, a sua volta, è portatore di ulteriore complessità. Un mondo in cui, nonostante tutto, non viene meno la necessità di instaurare rapporti col vicino, anche per evitare che questi rapporti sfocino in una violenza distruttiva e autodistruttiva. In un mondo del genere, dove collochiamo la parola “convivenza”?
Dobbiamo uscire da un senso troppo stereotipato della parola “convivenza”. La convivenza non è, primariamente, un valore universale. Prima di essere un valore, infatti, la convivenza è una necessità. Dobbiamo allora cambiare approccio mentale: non siamo più nella condizione di scegliere tra la convivenza e il suo contrario. Il mondo, storicamente, aveva proposto una possibilità di vivere senza convivere: le comunità erano separate tra loro e autosufficienti. Oggi, al contrario, sono interrelate e interconnesse: da qui la necessità della convivenza. Se collochiamo la convivenza in questo scenario si aprono una serie di questioni: non solo “come” convivere, ma con “chi” praticare la convivenza.

La convivenza, dunque, rimanda inevitabilmente a un tema spesso frainteso in questi anni: l’identità…
Se vogliamo connotare la convivenza a livello funzionale, nel concreto dei rapporti umani, dobbiamo anche dire “convivenza rispetto a che cosa”. Il nodo da dirimere, allora, diventa quello delle identità.

Che cosa intendiamo per “identità”?
Le definizioni sociologiche, biologiche, filosofiche di “identità” sono molteplici. Rendiamoci le cose semplici: le identità sono tutto ciò che ci definisce e hanno tre caratteristiche fondamentali. Prima caratteristica: le identità sono molteplici. Nessuno di noi ha un’unica identità e nessuno di noi può definirsi basandosi unicamente su una sola identità. Per questo è bene parlare di identità al plurale. Seconda caratteristica: le identità sono dinamiche. Cambiano nel tempo e nello spazio: oggi ho un’identità che non avrò domani. Non esiste – come ci ha spiegato François Jullien – il concetto di staticità, perché le identità sono movimento e, come tali, incontro e ibridazione. Terza caratteristica: le identità sono performative.

Soffermiamoci su questo punto: che cosa intende quando parla di identità performative?
Intendo dire che le identità hanno sempre a che vedere con una scelta e un riconoscimento. Una scelta che può essere nostra, nel migliore dei casi, o imposta da altri su di noi, nel peggiore. Io non sono ciò che sono indistintamente, in assoluto. Lo sono solo nella relazione di riconoscimento con l’altro.

Questo modo di ridefinire il concetto di identità ci riporta inevitabilmente al concetto di convivenza…
Solo passando attraverso una comprensione corretta del concetto di identità possiamo meglio definire quello di convivenza. La convivenza è la necessità della comprensione della natura complessa delle identità e, al tempo stesso, la necessità di relazione tra queste identità. Se non prendiamo in considerazione questi elementi, finiamo per cadere in una trappola. La trappola che ci porta a considerare l’alterità come un’identità statica.

Le identità sono molteplici, sono movimento e sono sono performative. Mutiamo nel tempo e nello spazio

Gabriele Segre

Questa trappola ci porta su un terreno binario, che in termini politici ricorre nella formula “amico contro il nemico”, che in entrambi i suoi poli è l’esatta negazione della convivenza….
Questo rapporto, puramente binario, non tiene conto delle caratteristiche dell’identità di cui abbiamo detto. Caratteristiche che comportano differenze, contrasti, ma anche molteplici punti di contatto. Al contrario, una concezione statica e mono identitaria dell’alterità fondata su un rapporto binario non prevede che due tipi di relazione: una relazione di conflitto, per cui riconosco la mia identità sono nel conflitto con te e do valore alla mia identità solo nella misura in cui riesco a sconfiggere la tua; una relazione di negazione delle identità, considerate come un retaggio che va superato attraverso una macro-identità in chiave universalistica. Sia il conflitto, sia il superamento del conflitto attraverso il superamento delle identità contraddicono sul nascere ogni progetto di convivenza.

Oggi ci troviamo a un punto di svolta. Da un lato, la concezione conflittuale delle identità incarnata dal populismo è stata messa in scacco. Dall’altro, però, anche quella universalistica che puntava alla convivenza superando le identità è venuta meno. Si apre, però, uno spazio nuovo per delle pratiche di convivenza improntate su altri parametri…
Dobbiamo rimettere mano alla concezione delle identità per creare un presupposto di risposta alla necessità della convivenza. Possiamo farlo prendendoci cura delle identità: ogni identità, proprio perché molteplice nella sua connotazione rispetto alle altre, è unica di per sé. Questa unicità è portatrice di dignità. Se siamo in grado di celebrare la dignità di questa unicità, anche nel riconoscimento e nella convivenza avremo fatto un passo avanti.

Questo riconoscimento della natura molteplice delle identità deve operare esternamente, ma soprattutto internamente…
Gli ostacoli maggiori alla convivenza nascono dalla paura di scoprire che la propria identità è molteplice. Allora proiettiamo sull’altro e sull’altrui identità questa paura. Per uscirne, occorre maggiore consapevolezza sul tema delle identità e, di conseguenza, una visione non ingenua, non valoriale, ma pratica e concreta della convivenza. Dignità, riconoscimento della reciprocità e umanesimo sono i tre pilastri di quella che potremmo definire una cultura della convivenza.

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