L’estate 2021 ce l’ha sbattuto in faccia: il cambiamento climatico è l’urgenza delle urgenze. Stefano Mancuso, direttore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale dell'Università di Firenze, è molto duro: ridurre le emissioni di CO2 è necessario ma insufficiente. Per la salvaguardia della Terra l’unica vera soluzione è piantare mille miliardi di alberi nei prossimi cinque anni, di cui due miliardi in Italia (ma potremmo tranquillamente, secondo lui, arrivare a sei): una vasca da bagno d’altronde si svuota togliendo il tappo, non certo riducendo l’intensità del getto d’acqua. Solo così possiamo far scendere la curva dell’emissione di CO2.
E allora perché non cominciare dalla scuola? Portando nelle aule una pianta per ogni bambino e per ogni insegnante. È questa l’idea di Beate Weyland, che insegna alla libera università di Bolzano, esperta del rapporto tra pedagogia e architettura e design. «Portare negli spazi interni delle scuole di ogni ordine e grado una pianta per ogni bambino e una per ogni insegnante non solo per abbellire luoghi che solitamente sono tristi e disadorni, è un gesto assolutamente rivoluzionario. Ci permetterebbe per esempio di ripensare il tempo scuola in ordine al tema della cura: quanto tempo possiamo ritagliare per curare insieme le piante, che sono l’unica fonte di sopravvivenza della razza umana sulla terra? Vivere con loro, curarle, seguirle, osservarle, giocarci… significa condurre i bambini (e noi stessi) a sviluppare rapporti di prossimità con le piante. Solo così vinceremo la scommessa per il futuro». Il progetto si chiama EDEN – Educational Environments with Nature e da un anno la professoressa lo sta sperimentando in dodici scuole, oltre che nella sua università.
Portare le piante all’interno delle scuole renda più accoglienti e resilienti gli ambienti e offre l’occasione agli insegnanti di ragionare sull’innovazione didattica di cui tutti ora stiamo tanto parlando. È un gesto che può fare ogni singolo insegnante e permette subito di ottenere un grande beneficio perché spinge a riconfigurare la orgnizzazione della didattica, ad esempio per trovare il tempo per la cura. È questo che mi interessa, io sono una pedagogista, non una arredatrice di interni
Beate Weyland
L’estate scorsa, quando si parlava di distanziare gli alunni con il plexiglas, lei suggerì di usare le piante…
Sì, la proposta era anche questa, ovvero di impiegarle come valide alternative per il distanziamento. Ma la ragione più profonda era quella di considerare come il portare le piante all’interno renda più accoglienti e resilienti gli ambienti scolastici e come questo gesto possa offrire l’occasione agli insegnanti di ragionare sull’innovazione didattica di cui tutti ora stiamo tanto parlando. Portando in aula una pianta, scopri che servono supporti per appenderle, oggetti per esplorarle e per fare didattica con loro… Disponi i banchi a isola per far posto alle piante e così scopri che mettendole al centro di un’isola di banchi si crea uno spazio cooperativo… È un discorso a ritroso. Portando la pianta dentro la scuola scopri approcci pedagogici e didattici innovativi, che lavorano tutti sulla domanda, sulla ricerca, sul team building, sul lavorare in gruppo per rispondere alle grandi domande che si possono presentare nella didattica quotidiana. Sono arrivata al ragionamento sulle piante dopo molti anni di ricerca su pedagogia e architettura e design, dopo decine di esperienze fatte con le scuole per ripensarne gli spazi, per costruire nuove scuole, per ristrutturarle o per ampliarle. Il fatto è che per intervenire sulla struttura c’è bisogno di coinvolgere una comunità complessa: una committenza, una dirigenza, un collegio docenti… Ragionare di spazi e apprendimento non si è ancora diffuso perché serve coinvolgere tutto un sistema. Invece portare una pianta dentro lo spazio educativo è un gesto che può fare ogni singolo insegnante, senza particolari autorizzazioni o atti amministrativi, e che permette subito di ottenere un grande beneficio: non solo perché abbellisce lo spazio, ma perché la pianta porta a riconfigurare la orgnizzazione della didattica, ad esempio per trovare il tempo per la cura, una cosa che normalmente a scuola non è importante. Il “pollice verde” a mio avviso non esiste, il rapporto con le piante è una eredità educativa. Questo per me è molto importante, io sono una pedagogista, non una arredatrice di interni né una botanica né una paesaggista. Il mio è un discorso educativo e didattico: sviluppare un rapporto di prossimità con le piante, conoscerle, curarle, giocare con loro crea un ponte tra dentro e fuori l’aula. La pianta serve a cercare l’incontro con la natura nel microcosmo dell’aula per avere poi un ponte che ci sposta nel mesospazio della scuola, per continuare con il giardino, fino ad arrivare al mondo circostante.
Quindi la pianta diventa il volano dell’innovazione didattica…
Più che di didattica innovativa oggi a me piace parlare di didattica orientata al potenziamento dell’individuo, al fare cultura insieme. La didattica di nuova generazione su cui tutti stiamo puntando – a volte esplorandola e a volte cristallizzandola in un metodo – è quella delle competenze globali che ci spingono a focalizzarci sull’orientamento alla domanda e ricerca, sul team building, sullo sviluppo di relazioni sane e di azioni responsabili. La scuola deve orientare la domanda e la ricerca, non più coltivare le buone risposte. Se guardiamo cento anni indietro, a Freinet o a Montessori, ma anche oggi a Lorenzoni, vediamo che nei grandi educatori queste categorie sono già tutte presenti.
Ha chiamato EDEN il progetto di portare in classe una pianta per ogni alunno: perché?
Eden sta per Educational Environments with Nature. Ovviamente l’idea è quella delle scuole come nuovi paradisi, parola che rievoca un giardino domestico, non certo una giungla di natura selvaggia. L’anno scorso hanno aderito 12 scuole e ce ne sono altre 20 che vogliono partire. Ovviamente abbiamo cominciato noi: a casa io in due stanze ho 80 piante. In università, da novembre 2020 abbiamo sviluppato una sorta di laboratorio green, chiamato GREEN SET, allestendo due aule, con cento piante per cento studenti, futuri insegnanti. Come laboratorio intendiamo aule in cui tutti i docenti e tutti gli studenti possono fare lezione, ma più piccole, generalmente destinate alle attività laboratoriali, quindi spazi che bene si prestano ai setting cooperativi. Nei mesi di chiusura le ho annaffiate io, poi con le prime riaperture due studenti hanno seguito un workshop per riprodurre le piante e così abbiamo allestito il nostro terzo laboratorio GREEN SET. Se le piante dopo sei mesi si riproducono, tutta l’università potrebbe in poco tempo avere una pianta per ogni studente, a patto di creare gruppi di studenti che investono energia e tempo su questa cosa. Stiamo provano a capre come fare, ragionando ad esempio sulla possibilità di dare un credito a questi studenti, che fanno qualcosa che sta perfettamente dentro il Green Deal europeo.
Il banco è simbolo della scuola di ieri, centrata sull’individualismo, che non può più funzionare. Il futuro dice che nessuno da solo può salvare il mondo. Il banco allora non è più il simbolo giusto.
Beate Weyland
Nelle scuole come funziona concretamente?
Le piante le portano i bambini, ognuno sceglie quella che preferisce, basta che siano da appartamento e movibili. Durante le vacanze la pianta va a casa col bambino. Prima obiezione: come facciamo a mettere 20 piante in uno spazio dove ci stanno a malapena 20 alunni? Ci stanno. Il problema è dove stanno. Forse bisogna rinunciare ai banchi in fila e disporli a isola o ancora meglio sarebbero dei tavoli, che restituiscono l’idea delle attività collaborative che possono nascere intorno a una tavolata conviviale. Il banco è simbolo della scuola di ieri, centrata sull’individualismo, che non può più funzionare. Il futuro dice che nessuno da solo può salvare il mondo. Il banco allora non è più il simbolo giusto. Se ci pensiamo durante il lockdown nelle nostre case tutto è avvenuto attorno al tavolo dei nostri soggiorni, siamo stati tutti insieme, nelle nostre attività individuali, attorno allo stesso tavolo, eppure ha funzionato.
E cosa si fa con le piante, una volta che sono in classe?
La prima responsabilità di noi insegnanti è insegnare il futuro alle giovani generazioni. Quello che abbiamo fatto finora sembra non funzionare più: non perché sia sbagliato, ma perché abbiamo un’emergenza. Come insegnanti dobbiamo accettare che quello che abbiamo fatto finora è importante, ma che è di assoluta priorità iniziare a fare qualcosa di diverso. Stefano Mancuso ci avverte che tra 20 anni il 20% della superficie terrestre sarà inabitabile: non posso dire ai ragazzi “non ho tempo che tu curi e osservi le piante perché ti devo spiegare che il mondo sta finendo”. No, ti devo far fare cose che ti permettano di agire. E la prima cosa da fare è creare un rapporto di prossimità più stretto con le piante. Dobbiamo iniziare a farlo insieme. Le attività che si possono fare poi sono infinite e occorre lavorare molto sulla creatività degli insegnanti, gli obiettivi li raggiungi lo stesso ma in un altro modo: l’insegnante di italiano, ad esempio, può lavorare sulla descrizione della pianta e sulle emozioni che si provano nella curarla. Se oggi, infatti, chiediamo ai ragazzi di esprimere le loro sensazioni rispetto alle esperienze che stanno vivendo, hanno un linguaggio e vocabolario espressivo poverissimo. In geografia si può fare una ricerca sui paesi di origine delle piante, scoprendo quanto siano le nostre vere straniere. In arte si può lavorare sulle tecniche di rappresentazione e riproduzione dal vero. Stiamo inoltre esplorando, a partire dai nidi e dalle scuole dell’infanzia fino alle scuole dell’obbligo, la possibilità di giocare con le piante: tanti libri che parlano del potere del gioco per l’apprendimento, perché sviluppa il pensiero laterale, cura le relazioni, permette di inventare regole… Giocare è un’attività stra-complessa e per dargli spazio a scuola stiamo sviluppando attività ludiche proprio con le piante. In questo modo potremo rispettare uno dei diritti fondamentali dei bambini e degli adolescenti, come compito educativo fondamentale. Così parte del tempo scuola dovrà essere dedicata alla cura delle piante e al gioco: e non il gioco filosofico o matematico, obbligato, ma un gioco autodeterminato dal bambino e ragazzo.
Come si implementa l’idea di Eden?
Come per l’animatore digitale, sarebbe bello avere un referente di progetto Eden in ogni scuola. Eden, ripeto, è un progetto pedagogico: questi referenti devono avere in mente l’aspetto educativo, quello degli spazi, quello della natura. Devono avere competenze su temi di sviluppo della scuola, sul team building, sui temi degli arredi e degli spazi, devono essere in grado di parlare con le committenze… Per questo sul nostro sito www.padlab.org abbiamo inserito non solo un elenco di libri per documentarsi, la biblioteca di Eden, ma anche dei riferimenti ai padlet con le esperienze fatte nelle scuole.
Giocare è un’attività stra-complessa e per dargli spazio a scuola stiamo sviluppando attività ludiche proprio con le piante. In questo modo potremo rispettare uno dei diritti fondamentali dei bambini e degli adolescenti, è un compito educativo fondamentale.
Beate Weyland
La parola da usare d’ora in poi forse non sarà più “scuola”. Quella è una parola che ci rovina, che ci porta dentro un frame di cento anni fa. Parliamo di “soggiorni educativi”.
Beate Weyland
Nel PNRR ci sono 8 miliardi per l’edilizia scolastica, cifre che sembrano enormi ma che in realtà si devono misurare con i 150 milioni di mq che costituiscono il patrimonio edilizio della scuola italiana, con un’età media di 53 anni. La rete EducAzioni ha già evidenziato il rischio che vengano usati per finanziare progetti già pronti nei cassetti degli enti locali ma vecchi, mentre l’edificio scuola discendere dal tipo di didattica e di scuola che vogliamo farci…
Rispetto a questo sono molto preoccupata. I dirigenti non sono coadiuvati nel trovare i tempi e le risorse per sviluppare una identità della scuola. Lo si vede nel fatto che faticano a dare indicazioni sistematiche e con buone argomentazioni pedagogiche alle committenze nel piccolo (penso ai tanti bandi per gli arredi o le aule), figuriamoci per tutto un edificio. I fondi del PNRR inoltre non sono tanti quanto sembra, non riesci a fare un concorso di architettura ma farai una gara di appalto al massimo ribasso. Le scuole rimarranno come sono, con intonaci migliori, una scala antincendio in più e altre soluzioni di minima. Non mi aspetto nulla di più. Serve puntare su qualcosa che possa riguardare tutti: non si tratta allora di segnalare scuole che hanno architetture belle o spazi pensati in un certo modo piuttosto che un altro, ma di mappare le scuole che stanno lavorando su un cambio di paradigma. E l’urgenza delle urgenze, appunto, è quella climatica. Per quello mi interessa andare direttamente nelle scuole, sensibilizzare sulla possibilità di abitare gli edifici, creare una “scuola domestica”: non tutti noi abbiamo i soldi per comprare la casa ideale ma tutti, qualunque sia la casa che abbiamo, possiamo renderla abitabile e accogliente. A scuola possiamo comprare cornici, piante, vasi, semi… per creare un nuovo “soggiorno educativo”. La parola da usare d’ora in poi forse non sarà più “scuola”, quella è una parola che ci rovina, che ci porta dentro un frame di cento anni fa. Parliamo di “SOGGIORNI EDUCATIVI”. È tempo di cambiare anche le parole: al posto delle aule creiamo dei soggiorni, dei luoghi da vivere e da abitare. Con delle regole, ovvio, ma dentro queste regole possiamo fare tantissimo.
Lei ha parlato delle piante come di qualcosa che apre la scuola al fuori. In questo anno e mezzo abbiamo sentito parlare molto di outdoor education, anche in modo confuso. Nel progetto Eden in cosa consiste questa dimensione?
Lavorare sul micro, sul rapporto con la mia pianta all’interno, mi permette di sviluppare un’attenzione nuova sulle piante fuori. Capisco molte cose. Abbiamo notato che la cura della pianta stimola sia noi insegnanti sia i bambini a guardare le piante esterne con altri occhi, senza fare interventi “da guardia forestale”. Mi spiego. Un conto è avere un rapporto continuo con una piant e forse poi anche piantarla. Un altro conto è partecipare a una azione in cui qualcuno ha scavato buche per noi, ha trovato le piante e ci invita a fare insieme l’ultimo gesto di metterle in terra. Stiamo ragionando su uno sviluppo del progetto EDEN anche nei cortili delle scuole, questa volta con piante autoctone, piante da frutto, cespugli, salici, il mirtillo, la pianta del pepe. Quando si acquistano queste piante nei vivai sono ancora abbastanza leggere da essere sollevate anche dai bambini: se si rivestono con sacchi in yuta o con appositi coprivasi da esterno con i manici, i bambini sono invitati a usare le piante insieme agli insegnanti per creare percorsi, forme, nidi, ma anche dei labirinti, o semplicemente per stare seduti a leggere e giocare vicino alle piante preferite. L’idea è proprio quella di creare un’aula green open air. Faremo una sperimentazione quest’anno. Dopo sei/otto mesi le piante hanno bisogno di essere piantate a terra… se si inizia il progetto in autunno, in primavera si potrà organizzare un bellissimo rituale per piantarle intorno alla scuola e forse capiremo quanto è differente mettere in terra e dare stabilità a una pianta con cui avremo vissuto, giocato, imparato vissuto tutto l’anno. Non vedo l’ora di iniziare questo progetto!
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