Aveva scritto nei primi giorni dell’epidemia: «Parole come “senso civico”, “rispetto”, “istituzioni”, in questo momento hanno improvvisamente perso il loro accento retorico. E non me lo sarei aspettato. Come non mi sarei mai aspettato che l’isolamento potesse diventare una forma particolare di socialità». Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, ammette che la storia di queste settimane è un qualcosa che lo ha cambiato personalmente. «Tutti ci stiamo chiedendo se questa situazione ci renderà delle persone migliori. Io non so rispondere. So solo che per risollevarci dal disastro, il nostro cambiamento personale e quello nei rapporti umani è una strada obbligata».
Iniziamo proprio da quella sottolineatura su questo sorgere di forme nuove di socialità. Prima del Coronavirus li si sarebbe definiti dei surrogati omologanti rispetto alle forme di socialità vera, quella fisica. Invece, cos’è successo?
«Per me è stata una vera sorpresa: le piattaforme di incontri hanno permesso di esprimere e anche potenziare il desiderio di ritrovarsi, di vedersi, di condividere esperienze e domande sul futuro, con una intensità addirittura maggiore di quanto avvenisse prima. Questa spontaneità di relazioni non può sostituire forme più strutturate di rappresentanza, quali sono i corpi intermedi o addirittura il Parlamento, ma ne sono una condizione indispensabile: senza questa vitalità la democrazia sarebbe (e, in effetti, è) debole.È una forma di socialità non prevista e non standardizzata che racconta meglio di qualsiasi cosa la voglia che nelle persone c’è di ricominciare nel segno del dialogo e non della contrapposizione ideologica. Ad esempio mi ha colpito l’idea che Carlin Petrini ha lanciato per il 25 aprile».
Cosa l’ha colpita?
«Perché lancia l’idea di un 25 aprile come lui dice “di liberazione e solidarietà”, in cui essere uniti nelle rispettive diversità senza lasciare indietro nessuno. Anche in questo caso è stimolo ad aggregazioni che si formano dal basso, oltre gli schemi ideologici, che sta raccogliendo tantissime adesioni».
Eppure, mentre questo accade, stiamo assistendo anche ad un fenomeno contrapposto di centralizzazione del potere, quasi un nuovo statalismo. Come se lo spiega?
«Da una parte, l’emergenza obbliga a decisioni più rapide e a catene di comando più corte, ma dall’altra, stiamo assistendo alla tentazione da parte di tanti di una scorciatoia autoritaria, nell’illusione che questo possa risolvere i problemi meglio e più in fretta. Paradossalmente la Cina diventa quasi un ideale, perché lì c’è un potere che può passare sopra la testa di tutti e affrontare i problemi senza dover rendere conto a nessuno. Vediamo che dinamiche simili sono messe in atto in Ungheria».
Come si dovrebbe affrontare secondo lei un’emergenza?
«Ricordo che Churchill durante la guerra radunava il governo nelle War Rooms nei sotterranei di Westminster. Anche in situazioni di assoluta gravità non ha mai voluto saltare i passaggi nei processi decisionali e il Parlamento non ha mai sospeso la sua attività. Invece qui ci troviamo davanti a una serie di decreti che piovono dall’alto senza un adeguato confronto parlamentare. In questo modo si finisce anche con l’alimentare un conflitto tra centro e territori, anche laddove i territori sono governati da forze politiche allineate a quelle di governo».
A proposito di territori, come spiega questo attacco alla Lombardia?
«È nella logica della banalizzazione ideologica dei problemi. Capiremo perché la Lombardia è stata al centro di questo tsunami sanitario. Ma si deve tenere conto che si tratta di un territorio ad alta intensità di popolazione, produttiva e di scambi, che era aperto alle relazioni con ogni angolo del mondo, come dimostra il volume dell’export della regione. Infatti il virus è esploso anche in altre grandi città del mondo. Poi certamente si può discutere su un modello sanitario che ha mostrato straordinarie eccellenze, ma che si è anche rivelato lento nell’adeguarsi alle esigenze della modernità. Faccio due esempi: gli ospedali, luoghi concepiti per la cura di malattie acute, sono troppo occupati dalla cura di malattie croniche, perché si è bloccata la realizzazione dei Creg (i Chronic related groups), e non si è avuto il coraggio di chiudere piccoli ospedali di scarsa efficienza perché ognuno ha voluto difendere il proprio particolare ed è venuta meno l’unità d’intenti che stava alla base del modello sanitario».
Chi sta pagando la centralizzazione del potere è il Terzo settore. Non è un paradosso rispetto a quella vitalità dal basso che l’Italia sta mettendo in mostra?
«È un fatto gravissimo. E’ un errore rifugiarsi nelle competenze dei tecnici senza capire che le competenze più importanti oggi sono quelle di chi sta nella realtà sociale e intercetta i problemi e i cambiamenti in atto e quindi è in grado di rispondere meglio ai bisogni delle persone. È quello che il Terzo settore garantisce, non in nome di un tecnicismo, ma per una conoscenza costruita nell’esperienza dei problemi concreti. E anche grazie ad una spinta ideale».
Anche la sussidiarietà viene rinnegata?
«È quello che sta accadendo. La cultura sussidiaria è lo strumento essenziale per chi governa perché permette di recuperare la conoscenza dei bisogni e delle esperienze che meglio sanno rispondervi. Soprattutto rispetto a problemi quali la povertà e ogni tipo di marginalità, oggi, senza la conoscenza delle società intermedie, la politica va alla cieca. Oltre a soffocare quel grande tesoro, in termini di capacità organizzative e di energia ideale, che è il privato sociale. Inoltre la società intermedia è un soggetto sempre più trasversale, slegato dai vecchi schemi ideologici, capace di mettere insieme le persone in tanti percorsi di costruzione di ciò che è bene comune. Il nostro futuro passa da lì».
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