Chi si ricorda di Giovanni Raineri? Pochi, pochissimi. Eppure Giovanni Raineri andrebbe non solo ricordato, ma studiato. Piacentino, agronomo, pioniere della cooperazione e tra i fondatori di Federconsorzi fu artefice di un vero e proprio modello esemplare nella (buona) gestione della cosa pubblica. Nel primo dopoguerra, tra il 1920 e il 1922, sotto i governi di Nitti prima, poi di Giolitti e infine di Bonomi, Raineri ricoprì la carica di ministro delle Terre liberate dal nemico.
«Rovina e abbandono ovunque e tracce profonde della devastazione compiuta dalla guerra, asportazione completa di quanto poteva essere dotazione o scorta delle aziende» questo annotava nelle pagine delle sue memorie.
Ad aver rilanciato – vox clamantis in deserto, in verità – l’opera di Raineri come possibile metodo di ricostruzione dopo il terremoto che ha colpito il Centro Italia è stato un altro piacentino, l’avvocato Corrado Sforza Fogliani, Presidente dell’Associazione Nazionale fra le Banche Popolari e Vicepresidente ABI, Presidente del Centro Studi di Confedilizia, nonché Presidente esecutivo della Banca di Piacenza.
Il metodo-Raineri per il bene comune
A ogni disastro consegue, o dovrebbe conseguire, una ricostruzione. Ma ogni volta, le forme adottate contraddicono le intenzioni e finiscono per generare altri disastri, di natura burocratica, amministrativa, politica… Raineri propose e attuò, almeno finché gli fu permesso, un modello che oggi potrebbe insegnarci molto. Penso in particolare al Regio decreto 29 aprile 1920, n. 605, che autorizzava «nelle provincie venete e finitime la costituzione di Consorzi per la ricostruzione e riparazione degli immobili distrutti o danneggiati per fatto di guerra».Raineri puntò sulla costituzione di consorzi fra i danneggiati, prestando fede al principio di doversi dare «forte e rapido impulso alla ricostruzione e riparazione degli immobili di proprietà privata» poiché «bisognava togliere il più presto possibile la popolazione, che numerosa vi dimorava, dal vivere nelle baracche, riconducendola alla vita sana, fisicamente e moralmente, della casa fissa: in altri termini, all’ordinata vita famigliare».
Un programma esemplare che superò in efficienza il modello di ricostruzione francese, allora all’avanguardia. Che cosa lo inceppò?
Le stesse cose che, oggi, impediscono una rapida ricostruzione che tenga al centro il bene comune. Dopo aver reso noto il proprio programma di interventi, programma avallato da Giolitti, Giovanni Raineri organizzò un convegno a Venezia. Arrivato al convegno, vi trovò una durissima opposizione.
Da parte di chi?
Da parte dei politici, in particolare amministratori locali, che si sentivano messi fuori gioco dallo schema di Raineri, che dialogava direttamente e senza bisogno di mediazioni con i Consorzi dei proprietari ricostruttori. Ma anziché fermarsi a quel convegno, Raineri aveva fatto un giro per le terre venete. Incontrò, fra i tanti, un uomo che stava ricostruendo la propria casa, avendo goduto del finanziamento da parte del Governo, e a quest’uomo Raineri, non riconosciuto, disse: “Mi scusi, ma anziché lavorare qui perché non va in Francia, dove ci sono salari più alti?” E quest’uomo gli rispose: “il Governo mi ha dato i fondi per la casa e, prima di tutto, mio dovere è ricostruire la casa, poi vedremo”.
La corruzione non si vince con delle leggi. Si vince mettendo in atto azioni che non ne favoriscano il sorgere. Più si passa attraverso terzi, più si permette alla corruzione di svilupparsi
Corrado Sforza Fogliani
L’opposizione al modello-Raineri non veniva quindi dal basso…
Tutt’altro, veniva dal “mezzo”, ossia da quella risma di presunti intermediatori che non intermediano niente, ma impediscono una cura efficiente e libera del cosiddetto bene comune. Veniva in particolare dalle associazioni di costruttori e dai politici degli enti locali che, come si fa anche oggi, volevano avere i soldi per redistribuirli e creare dipendenza e con la dipendenza quel “consenso” che diventa anche merce di scambio. Volevano quei soldi, nella più innocente delle ipotesi, per fare clientelismo elettorale e, nella peggiore, perché più passaggi ci sono e più il denaro – diciamo così – si attacca alle mani dei mediatori.
Sembra non sia cambiato nulla…
Qualcosa è cambiato, in realtà, ma in peggio. A suo tempo Raineri trovò l’appoggio pieno di Giolitti al quale aveva riferito di questa opposizione dei politici e delle consorterie locali. Oggi, invece, non solo il metodo Raineri non viene adottato, ma neanche lo conoscono o ci pensano.
Il metodo Raineri può essere visto anche come un contrasto e un disincentivo alla corruzione…
La corruzione non si vince con delle leggi. Si vince mettendo in atto azioni che non ne favoriscano il sorgere. Più si passa attraverso terzi, più si permette alla corruzione di svilupparsi. Raineri diede fondi alle cooperative e ai consorzi di proprietari, ossia ai diretti interessati non a interessati “mediatori” e il suo metodo destò allarme tra questi ultimi…
È un po’ come nel microcredito…
Esattamente.
Le banche di territorio e la finanza internazionale
Perché alcune banche praticano microcredito e altre no?
Domandiamoci se quelle che lo praticano sono “più buone” delle altre o sono più leggere nell’erogazione del crediti. Certo che no, semplicemente: quelle che lo fanno, sanno farlo. Fanno credito a singoli soggetti, ma sono singoli soggetti che fanno parte di reti associative. Se il soggetto non restituisce la somma, la rete e il controllo sociale intervengono. Si tratta allora di conoscere e rafforzare queste reti e questo controllo sociale, che sono la spina dorsale del microcredito. Il microcredito opera sostanzialmente con lo stesso schema usato da Raineri per la ricostruzione.
Uno schema virtuoso che purtroppo non è stato usato nella ricostruzione dopo il sisma del 2016-2017…
Ciò che oggi condiziona la ricostruzione sono i finanziamenti dati a terzi. A questi terzi i proprietari devono rivolgersi, entrando in una rete che nulla ha a che vedere con la fiducia e il controllo sociale.
Ciò nonostante, la società civile resiste e nonostante tutto riesce a esprimere e formare delle proprie élites…
Noi abbiamo un tessuto sociale e produttivo che potrebbe benissimo fare al caso. È un po’ il discorso delle banche di territorio. Le banche di territorio funzionano e hanno meno sofferenze delle grandi perché conoscono le persone e le organizzazioni a cui prestano. Ma soprattutto perché le banche di territorio vanno bene, se va bene il loro territorio. Se il territorio va male, anche il loro conto economico ne risente. È’ loro interesse diretto, quindi, sostenere il territorio.
Non è quindi questione di bontà o generosità, ma di efficienza…
Proprio così. Ma il nesso banca-territorio, nel caso delle banche di territorio, è virtuoso. Non è, mi passi il termine, meramente speculativo. Pensi che in sette anni, dal 2007 al 2014, le banche popolari hanno erogato prestiti per oltre 670 miliardi di euro alle imprese e di questi miliardi, la metà è andata a imprese di piccole dimensioni. Alle famiglie sono andati oltre 100miliardi, con mutui a un tasso del 3, anziché del 4%.
Le grosse banche, invece, vanno a far credito dove conviene loro, atterrano sul territorio che conviene loro. Ogni territorio ha tassi diversi, e le grosse banche saltellano di qua e di là, per dir così, dove conviene loro erogare il credito.
È tutta una questione di cultura. I giornali hanno enfatizzato le vicende delle banche venete e di Banca Etruria, ma hanno parlato poco o niente delle banche grosse che hanno perso miliardi. Quando si parla di territori, oramai, se ne parla solo in negativo. Viene il sospetto che si indichi il dito, per nascondere la luna
Corrado Sforza Fogliani
Questo fa sì che intere zone del nostro Paese siano oggi scoperte…
Proprio così. In Meridione, pressoché scomparse le banche locali, non c’è nessuno che fa credito. In Calabria non c’è più nessuno, nella Sicilia occidentale è lo stesso. Tolte le banche di territorio, non ci sono grosse banche che facciano credito, in quelle zone.
La finanza internazionale ha le sue colpe, in questo…
La finanza internazionale tende a fare in modo che, in Italia, si installi un oligopolio di quattro-cinque banche. La guerra alle banche popolari e alle banche territoriali nasce solo da questo. Come dimostra la composizione del capitale delle banche, in particolare delle banche popolari che hanno dovuto trasformarsi in società per azioni per effetto della riforma-Renzi.
A chi sono in mano, dopo la riforma, queste banche?
Sono tutte in mano, ad un livello di capitale che ne condiziona il governo, di fondi speculativi europei e soprattutto statunitensi. I risparmiatori non contano più niente, in queste banche. Pensi che, al contrario, proprio negli Stati Uniti le banche cooperative sono difese, non aggredite. Il credito locale, che ovviamente va alle piccole e medie imprese, è fondamentale.
Possiamo ancora porre un argine a questa deriva?
È tutta una questione di cultura. I giornali hanno enfatizzato le vicende delle banche venete e di Banca Etruria, ma hanno parlato poco o niente delle banche grosse che hanno perso miliardi. Quando si parla di territori, oramai, se ne parla solo in negativo. Viene il sospetto che si indichi il dito, per nascondere la luna.
E ci si dimentichi, volutamente, di gente come Raineri…
Proprio così, ma noi non lo dimentichiamo.
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