Immagini e parole per raccontare come si fa il bene. Con Antonio Mola (autore delle immagini) abbiamo passato mezza giornata con i volontari di Opera San Francesco per i Poveri. Siamo andati a visitare i diversi servizi: dal centro di raccolta di via Vallazze, alle docce e guardaroba, dalla mensa di via Concordia [allora non era stata ancora aperta quella di piazzale Velasquez], fino al centro di accoglienza. Nel 2012 alla mensa venivano distribuiti 712.387 pasti all’anno, dodici anni dopo i pasti sono diventati 836.261, oltre 100mila in più.
Le emergenze nel tempo si sono modificate e moltiplicate, ma anche le risposte e in modo particolare quella dei volontari che nel 2012 erano 600 di cui 160 medici. Oggi, anno 2024, i volontari sono più che raddoppiati: sono 1.354 e tra loro 230 sono i medici che operano nell’ambulatorio di via Antonello da Messina in grado di fornire quasi 26mila visite mediche.
«Lei lo metterebbe questo vestito?». incrociando il nostro sguardo stupito mentre osserviamo, colti alla sprovvista, il completo in velluto un po’ liso sulle maniche, Giuseppe Torti, detto Pino, spiega: «questa è la domanda che si fa ciascuno di noi per ogni capo che ci passa tra le mani quando facciamo la selezione dei vestiti donati. Se la risposta è no, allora lo scartiamo. Attenzione, non lo buttiamo, lo mettiamo da parte in quei sacchi gialli. Se invece la riposta è “sì”, allora vuol dire che lo possiamo donare ai nostri poveri».
Da sette anni, da quando è andato in pensione, Pino volontario al centro raccolta di Opera san Francesco, dove vengono selezionati i vestiti e gli altri beni donati all’Opera san Francesco per i Poveri, un’istituzione cittadina: dal 1959 i frati cappuccini di viale Piave, e le decine di migliaia di volontari che si sono succeduti in oltre cinquant’anni, danno ai poveri della città un pasto e un posto caldo.
Mi metterei questo abito? Se la risposta è no, allora lo scartiamo. Se invece la risposta è “sì”, allora vuol dire che lo possiamo donare ai nostri poveri
«A fare la selezione sono soprattutto le donne», continua Pino, accennando con la testa alle volontarie lì intorno, «perché hanno un occhio migliore».
Il grande locale di via Vallazze – dove è allestito il centro raccolta – è per metà occupato da lunghi scaffali pieni di scatole divisi in corsie colorate.
«Sugli scaffali finiscono i capi selezionati, e i colori ci aiutano a distinguere le stagioni. ogni scatola ha una bolla in cui si segna il tipo di capo e la taglia» continua il nostro cicerone, molto orgoglioso di quest’organizzazione precisa e metodica, che ha una ragione: «Quando da via Kramer (dove avviene l’accoglienza dei bisognosi, ndr) un paio di volte la settimana il guardaroba ci chiede il rifornimento: giubbotti, maglioni, scarpe o pantaloni, sappiamo subito dove cercarla e quanti capi abbiamo. Il materiale che scartiamo viene ritirato da una ditta, che ce lo paga. Col ricavato, acquistiamo biancheria nuova».
Dietro una vetrata si vedono una lavatrice industriale e un’asciugatrice, in una stanza c’è tutto l’occorrente per stirare e cucire. Alessandra Bialetti, dopo un paio d’anni di volontariato in mensa, da cinque anni trascorre il martedì mattina alla seconda selezione dell’abbigliamento: «Anche qui scartiamo molto, perché a volte alcune persone pensano di far del bene portando di tutto, ma spesso ci ritroviamo con abiti inservibili…. Per i nostri poveri vogliamo solo il meglio», sottolinea Alessandra, che confessa: «io sono un po’ schifiltosa, vedo microbi ovunque, e questo compito lo vivo un po’ come una penitenza. ma l’ho scelto io».
Esilde Ronchi è invece una veterana del centro raccolta, «fin da quando era nella vecchia cucina di via Kramer, e poi quando ci siamo spostati in via Apuleio». È la memoria storica. «Ho notato che la gente elimina meno cose, l’abbigliamento ci arriva più usurato, forse è la crisi. ma qui non si butta via niente. quando ci donano accappatoi che noi non utilizziamo, o li tagliamo e li trasformiamo in asciugamani; se le camice hanno colletti e polsini troppo rovinati le trasformiamo in fazzoletti».
I donatori che arrivano al centro di via Vallazze, all’ingresso non trovano solo i grandi cestoni in cui lasciare il sacco con gli abiti usati, ma anche una serie di “avvisi”. «Perché noi trattiamo soprattutto capi da uomo, ma se uno ha giocattoli da donare, o mobili, ben vengano. Questo è un circuito del bene» conclude Pino.
Saliamo sul furgoncino che porta l’ultima selezione al guardaroba che si trova in via Kramer, cuore pulsante dell’Opera san Francesco. qui hanno sede il centro accoglienza, la mensa, le docce e il guardaroba.
Poveri e homeless possono accedere alle docce una volta la settimana. Nella stanza dove operano i volontari sono allineati kit per la barba, scaffali di asciugamani e la biancheria per il cambio. «quando vengo qui, una volta alla settimana, è il momento in cui respiro. Respiro la vita della città, quella vera. A colpirmi la prima volta è stato l’odore, lo stesso che si respira in metropolitana, e questo mi aiuta a essere più tollerante verso le persone, anche “fuori”», racconta Alessandro Ferrari, giovane volontario che di mestiere fa l’educatore. «Avendo la mattina libera, ho deciso di dedicarla a Osf».
Quando vengo qui respiro la vita della città, quella vera
A colpirlo sono soprattutto i giovani che vede arrivare qui, suoi coetanei e lui stesso ha coinvolto diversi amici: «Una mia amica che si sta laureando in medicina adesso presta servizio nell’ambulatorio medico. quello che svolgiamo qui all’Opera è un tipo di volontariato che consiglierei a tutti».
Per poter accedere ai diversi servizi occorre essere muniti di un badge. A rilasciarlo è il centro accoglienza, il primo gradino dell’assistenza svolta da Osf, come spiega padre Vittorio Arrigoni, responsabile dei volontari (un piccolo esercito di circa 600 persone, tra cui 160 medici): «il compito più impegnativo, qui, riguarda il rilascio dei badge per l’ingresso, che hanno delle scadenze. Durante i colloqui periodici per il loro rilascio o rinnovo si cerca di capire la reale situazione di bisogno della persona che ci troviamo di fronte». Compito delicato. I volontari che operano qui «hanno una formazione specifica, come quelli che, non medici, si occupano del front-office dell’ambulatorio: ci sono dati sensibili da trattare, e bisogna saper valutare e decidere».
E poi, bisogna saper sorridere, sempre. È questa “l’arma” di Ambrogio Casarino, da quasi quattro anni all’accoglienza. «Il sorriso è il primo approccio. Poi inizia l’iter dell’accoglienza, da un colloquio. Chi arriva da noi ha paura, allo sportello è tutto un po’ freddino, per questo la prima cosa da fare è rassicurare le persone, dire che non devono pagare nulla, e soprattutto spiegare che non c’è solo la mensa, ma tanti servizi utili a chi vive sulla strada, o in condizioni precarie, dalle docce all’ambulatorio».
Il sorriso è il primo approccio. Poi inizia l’iter dell’accoglienza
Lo sportello dell’accoglienza è anche un importante termometro della povertà della metropoli. «È dall’estate dell’anno scorso che stanno aumentando gli ospiti italiani» continua Ambrogio. «I primi anni che prestavo servizio qui si trattava di persone anziane, o dei classici clochard. oggi si è allargata la forbice delle fasce d’età, sono aumentate persone che vivono in strada, anche se sembra incredibile: magari hanno macchina e telefonino, ma dormono in auto…».
«Negli ultimi mesi sono arrivati anche dei Greci, le prime vittime della crisi del loro Paese. È la prima volta che succede», interviene Ornella Belluschi, volontaria da quattro anni e come Ambrogio approdata a Osf al momento della pensione.
«Quando ho iniziato mi occupavo dell’inserimento dati, non ero direttamente a contatto con gli utenti. Poi ho progredito. Ma oggi, nonostante l’esperienza, ho ancora un timore, quello di non comprendere l’esigenza delle persone che chiedono aiuto» confessa, e ricorda «gli occhi terrorizzati di un ragazzo del Niger, parlava solo inglese, ho dovuto spiegargli che non eravamo poliziotti».
Anche per Ornella il sorriso non è solo d’ordinanza, è un modo di approccio normale: «Stringo la mano a tutti. Uno, quando ha finito il colloquio, mi ha abbracciata e baciata: è stata una cosa bellissima».
In azienda mi occupavo di risorse umane, e la mia vecchia professione mi aiuta anche nel mio compito qui
Fuori dalla mensa la coda inizia a formarsi poco dopo le 11 (si apre alle 11.30), ma nelle cucine l’attività è iniziata da ore, grazie al lavoro di tredici operatori di una cooperativa sociale che si occupano della scodellatura e delle pulizie, e affiancano i quattro dipendenti di Osf: due cuochi, un magazziniere e un responsabile, Andrea Rossetto, che spiega i compiti dei 150 volontari che si avvicendano in servizio dal lunedì a sabato (10/11 persone per turno) che accolgono gli ospiti a pranzo e cena. «Alcuni sono impegnati all’esterno, gli altri distribuiscono il pane e la frutta, ma soprattutto girano tra i tavoli aiutando chi non ce la fa a portare il vassoio, o a tagliare la carne, perché tanti sono anziani».
Uno dei volontari ha una maglietta bianca, è la divisa del referente dei volontari: «Sono un fluidificatore del servizio», si qualifica Giuseppe Papaleo, da tre anni in Osf. «Sono qui da quando sono pensionato. In azienda mi occupavo di risorse umane, e la mia vecchia professione mi aiuta anche nel mio compito qui». Papaleo controlla attento che chi ha la precedenza entri per primo (le mamme con bambini o le persone con disabilità: la coda dura anche una ventina di minuti…).
«L’Opera la conosco da anni, mio suocero faceva il grossista all’ortomercato, e grazie a lui ho conosciuto questa realtà, che mi ha subito conquistato» racconta. Unico dispiacere? «Ci sono giorni che abbiamo anche 1.800 persone a pranzo, diventa difficile instaurare un rapporto, far due chiacchiere mentre sono in coda, perché il primo pensiero è riuscire a farle mangiare tutte in tre ore». E subito ci lascia, per aprire la porta alla seconda ondata.
Nelle immagini le pagine pubblicate su VITA nel numero di dicembre 2012
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