Disabilità

Un albero di cachi per rinascere

di Anna Spena

È una pianticella simbolo, nata dai semi dell’unica sopravvissuta dall’atomica di Nagasaki. Un esemplare è arrivato a Milano, nella sede dell’associazione Gaetano Negri, per raccontare come la fragilità nasconda forze segrete

Lo vedi così, piccolo e rachitico, senza foglie, e ancora senza frutti. Ma il nove aprile lo pianteranno nell’orto dell’associazione Gaetano Negri Onlus, e a farlo, saranno proprio i giovani, ma anche meno giovani, che dell’associazione fanno parte. Cosa centri un albero di cachi che viene dal Giappone con un’associazione che propone laboratori artistici per persone disabili non lo si capisce subito. Eppure c’è un legame, una sorta di relazione invisibile che li avvicina: è il nodo della fragilità. Ma, a dispetto dei luoghi comuni, questa non tiene mai fino in fondo in ostaggio né i primi, né l’alberello di cachi. Anzi, forse, a conoscerne bene la storia, la fragilità la trovi, invece, dentro gli occhi di chi guarda…

Quando il nove agosto del 1945 Nagasaki venne bombardata con gli ordigni atomici, si pensava che tutto fosse morto. Qualcosa invece è sopravvissuta sotto le macerie: un albero di cachi. Si era però molto indebolito. Un botanico del posto, Masayuki Ebinuma, l’ha curato come fosse una persona. La forza vera di quella pianta, più forte di una bomba atomica, stava nel messaggio di cui si faceva portatrice: ogni guerra, è una guerra inutile. Il botanico Ebinuma prelevò alcuni semi dei frutti che erano nati dall’albero bombardato. Provò diverse volte a piantarli e, finalmente, nel 1994 quei semi attecchirono al terreno e nacquero altre “pianticelle di cachi della seconda generazione”. Nel 1996 l’artista contemporaneo giapponese Tatsuo Miyajima pensò che per trasmettere il messaggio di pace l’albero doveva essere esportato fuori dai confini nazionali. Ideò un progetto per sostenere questa attività come forma d’arte. Venne così formato un gruppo senza fini di lucro, il Comitato Esecutivo del Progetto dell’Albero di cachi “Rinascita del tempo”, che iniziò le sue attività per incoraggiare i bambini in tutto il mondo ad incontrare ed allevare i figli dell’albero di cachi bombardato.
Oggi è evidente che quell’albero tanto fragile non era…

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Qualche settimana fa è arrivato all’aeroporto di Malpensa, erano tutti felici. Felici come bambini anche se bambini non lo sono più da tempo. Persone con disabilità motoria. Fragili pure loro agli occhi dei più, eppure capaci di creare, con quelle mani che non rispondono mai a pieno ai desideri, oggetti, dipinti, sculture, candele. Anche per loro, dove sta questa fragilità se il corpo prova ad andare sempre oltre e pretende quello che la malattia gli ha negato?

Luca è uno di quei ragazzi che ha provato ad andare oltre.
Quando è nato nessuno le credeva. Ma lei, la sua mamma, invece, l’aveva capito subito che qualcosa non andava. Anna Conti Contini è una bella signora di 84 anni. Ma a sentirla parlare sorprende quella contraddizione squisitamente umana di una donna che racconta la sua vita, quella di suo figlio e quella di chi, poi, con il tempo figlio lo è diventato, con una voce interrotta sempre a metà tra la dolcezza e la malinconia – che spesso arrivano con l’età – e l’energia di chi è pronto a vivere altre mille vite ancora. Oggi Anna è presidente dell’associazione Gaetano Negri Onlus che propone laboratori artistici per persone disabili. Anche il figlio di Anna, Luca, che oggi ha 53 anni è disabile. Spastico.
«Dopo i primi mesi di vita», racconta Anna, «Luca non reggeva bene il capo. Per i primi tre anni ho fatto avanti e indietro tra la nostra casa e il centro pediatrico che c’era in via commenda a Milano. “Tranquilla, è un po’ di stenia muscolare” mi dicevano i dottori. La riabilitazione l’abbiamo cominciata solo dopo, purtroppo».
Quella di Anna Conti Contini è una storia che si intreccia con le storie di chi è venuto prima. «A Milano c’era un sindaco, bravissimo. Si chiamava Gaetano Negri», racconta Anna. «Amava molto la sua città; ha anche allargato via Dante perché si potesse vedere meglio il Castello Sforzesco. Poi aveva questa attenzione per i ragazzi fragili».
Ragazzi fragili, voleva dire motulesi. “Motulesi”, nel linguaggio medico sono tutte quelle persone lese nelle loro capacità motorie. «Il sindaco convinse i Conti Finzi a dare al Comune una loro villa a Gorla. Una villa con un parco per far stare i ragazzi vicino alla natura. Quella villa sarebbe diventata una scuola speciale, una scuola per loro. Prima potevano accedervi i poliomelitici, poi i motulesi e quindi gli spastici». Luca, a vent’anni, è diventato uno degli studenti della Scuola Civica Gaetano Negri per Motulesi di Gorla. «Alla scuola c’erano degli insegnanti di educazione artistica. Avevano compreso che l’attività artistica era vista da questi ragazzi quasi come un ideale. Capirono così che la scuola non bastava e decisero di seguire i nostri ragazzi anche nella vita. Nel 1961 è nata l’associazione; che ha mantenuto, ovviamente, il nome del sindaco che ha fondato la scuola».

Anna Conti Contini ne è diventata il presidente nel 1983. Nella sua associazione, che ha sede in via de Amicis 17, sempre a Milano, si organizzano laboratori di ceramica, acquarello, musicoterapia, tessitura, lavorazione di candele di cera d’api. «Abbiamo anche un laboratorio che si chiama “Mani in terra”, ai ragazzi piace lavorare nell’orto, ma quello non ce l’abbiamo nella brochure, non abbiamo soldi per stamparne di nuove aggiornate».

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L’affitto della sede dell’associazione costa circa 20mila euro l’anno. Poi ci sono gli stipendi degli educatori. «Eh paghiamo con i debiti», sorride Anna. «Abbiamo l’educatore, una coordinatrice e la responsabile di tutti i laboratori. Ma andiamo avanti anche con l’aiuto dei volontari. Ma sono, anche loro, professionalmente preparati. Non abbiamo la brava donna che va dalla vicina di casa per fare una buona azione. Sono tutte persone qualificate», precisa Anna Contini.

Nel 2012 l’associazione ha ottenuto l’accreditamento da parte del Comune di Milano per gestire un centro socio educativo. Tengono con loro, dalle nove di mattina alle cinque del pomeriggio, nove disabili. «Qualcuno è in carrozzina, qualcuno no». Ma nell’associazione, durante il giorno, partecipano ai laboratori circa venti persone. Il figlio di Anna, Luca, ha frequentato i laboratori fino al 2012. Poi ha avuto una malattia intestinale, diversi ricorsi ospedalieri. «Adesso è ha le gambe bloccate. Non riesce più a piegarle. Deve restare a letto o in una carrozzina dove può tenerle allungate. Per spostarlo serve l’ambulanza».
Nell’associazione incontriamo Angelo Pio, 74 anni. «Angelo era uno degli allievi della scuola speciale. Poi è rimasto con noi», spiega Anna. «Abbiamo persone dai venti ai settant’anni. Il fatto che ci siano anche degli anziani non è vista come una cosa negativa, ma come una crescita naturale della scuola fondata da Negri».
Tutta questa dedizione, questa passione non affondano le radici solo nell’amore di una madre per un figlio. «Mi sono appassionata perché mi piace la bellezza. Bellezza delle cose che fanno. E poi è molto bello stare con loro», si emoziona. «Sono buoni e pieni di cose dentro». E lei la bellezza delle “cose dentro” la riconosce nei gesti normali. «Un giorno ho detto ad uno dei nostri ragazzi “ti ho visto lavorare e mi sei piaciuto, andavi molto bene” e lui mi ha detto “grazie”».
Luca è «rimasto prigioniero della sua malattia», racconta Anna. «Ma io non ho mai vissuto come una ferita narcisistica il fatto di avere un figlio disabile, l’ho sempre visto come un tesoro, il mio».
In questa epoca «di indifferenza verso la dignità delle persone», come la chiama Anna, la sua forza sembra voler disegnare la strada per tutte le altre storie che verranno dopo.

L’alberello i ragazzi lo tengono ancora dentro un vaso. «È fuori, in giardino», dice Anna. «Ci piacevano i valori che portava. Amicizia, pace, arte. Poi verranno le scuole a visitarlo, coglieremo insieme i frutti. I nostri ragazzi si divertiranno».

Nessuno ha dubbi sulla bellezza dei frutti che verranno.

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