Trovare e mantenere un lavoro può essere più difficile per alcuni piuttosto che per altri. Chi appartiene a categorie marginalizzate, spesso non trova un ambiente professionale adeguato alle sue necessità; lo stesso colloquio, così come la ricerca di un impiego, possono essere degli ostacoli insormontabili per alcuni gruppi sociali. L’inclusione lavorativa cerca di dare una risposta a queste difficoltà, ma rischia di non essere sempre efficace come dovrebbe. Fabrizio Acanfora, accademico, scrittore e blogger, è una persona autistica impegnata in attività di self advocacy, anche attraverso l’associazione che presiede, Neuropeculiar – Movimento per la biodiversità neurologica, realtà unica nel suo genere completamente diretta da neurodivergenti. Nel suo ultimo libro, Di pari passo. Il lavoro oltre l’idea di inclusione (Luiss University Press), che esce nelle librerie oggi, Acanfora analizza in modo critico le azioni attualmente messe in campo per l’inserimento professionale.
Innanzitutto, lei, anche sulla base della sua esperienza personale, vede dei limiti nel concetto di inclusione lavorativa?
I limiti sono, fondamentalmente, nel modo in cui viene concepita e attuata. Non sono riferiti solo all’inclusione lavorativa, ma all’inclusione tout court. Si tratta di un concetto nato e applicato con un certo paternalismo: c’è una maggioranza che definirei “di potere”, quella che chiamiamo comunemente “normalità”, che decide il valore che ciascun individuo ha all’interno della società e come vengono distribuiti i diritti. Nel mondo professionale, si parte da uno standard di dipendente che deve essere una persona produttiva, ma per esserlo bisogna rispettare certi canoni. Il nostro sistema economico si basa su ideali neoliberisti, che stimolano la competizione e si trasformano in vera e propria concorrenza umana. Ci sono individui che sono e saranno sempre svantaggiati in quest’ottica, per quante misure dall’alto si possano applicare. Sono palliativi, che rischiano di escludere sempre di più chi non è inseribile.
E questo è particolarmente evidente nel caso delle persone disabili.
La disabilità è una cartina al tornasole, che mostra come l’inclusione lavorativa sia un processo da rivedere. È stato introdotto il concetto di “accomodamenti ragionevoli”; in questo caso il termine ragionevolezza non è inteso nella direzione dell’adeguarsi alle esigenze di tutti, quanto alla sostenibilità economica da parte dell’azienda. Se un adattamento che va fatto perché una persona non standard possa lavorare è conveniente e produce guadagno lo si mette in atto, altrimenti no. Se l’assunzione di un dipendente non produce benefici in termini monetari, allora non è ragionevole e quindi è una strada impercorribile. Questo ci dovrebbe far riflettere molto: l’inclusione si è sviluppata a partire dalle categorie più “includibili”. Tra i disabili, coloro che vengono inseriti negli ambienti lavorativi sono, utilizzando un linguaggio poco politicamente corretto, quelli meno disabili. La stessa cosa accade nella mia esperienza personale, tra gli autistici. Quelli che trovano un impiego sono quelli che non hanno disabilità cognitive e sono in grado di gestire determinate situazioni. Abbiamo un problema: è un’inclusione a metà, che rischia di discriminare ancora di più.
Ascoltando le sue parole, viene da dire, come Gino Bartali, “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”. C’è invece qualche aspetto positivo nell’inclusione lavorativa?
In realtà i passi avanti sono stati tantissimi. Il fatto che io sottolinei alcune criticità non significa che sia tutto sbagliato. Ora nel mondo lavorativo sono rappresentate delle categorie per cui anni fa un inserimento sarebbe sembrato utopico. La mia idea, però, è che quello che stiamo facendo andava bene all’inizio, ma ora è superato. Ho la sensazione che l’inclusione sia diventata più una sorta di Employer branding, un intervento caritatevole e paternalistico che spettacolarizza la diversità: stiamo lavorando più sull’immagine che sulla sostanza.
Che soluzioni propone?
Si tratta di un problema di difficile soluzione: finché continueremo a basarci su un sistema che premia la competitività non lo risolveremo. Pensiamo ai privilegi, a quanto sono difficili da ammettere e a quanto interessano tutti noi. Io posso essere discriminato in quanto persona omosessuale e autistica, ma avrò sicuramente dei vantaggi rispetto ad altri in quanto maschio bianco, nato in una certa parte del mondo. Ci raccontiamo la storiella della meritocrazia, ma non è così, perché non ammettiamo che esistono dei privilegi che non ci fanno combattere ad armi pari. È come se gareggiassimo in una corsa con gli stessi obiettivi, ma qualcuno avesse un percorso ad ostacoli e altri una pista pulita, magari in discesa. Finché non cambieremo questo sistema iniquo, l’inclusione rimarrà circoscritta. Per questo auspico una convivenza delle differenze. L’uguaglianza è un ideale, che non è mai stato realizzato, nemmeno nelle società primitive, ma avere meno iniquità non sarebbe male. Ogni persona dovrebbe prendere coscienza del fatto che il sistema non sia giusto, perché è esclusivo. Probabilmente è utopistico, ma penso che possiamo arrivare a qualcosa di molto vicino a una vera inclusione.
Le faccio un’ultima domanda e le chiedo di rispondere in quanto presidente di Neuropeculiar. Può chiarire il concetto di “neurodiversità”?
Si tratta di un concetto molto interessante, che va nella direzione di un superamento dell’inclusione. Spesso mi sento dire “Tu hai una neurodiversità” o “Tu sei neurodiverso”, ma non è così. Neurodiversità non è sinonimo di autismo o di altre condizioni: si tratta di un termine introdotto da dalla sociologa australiana Judy Singer che indica una biodiversità neurologica, non intesa come divergenza da una normalità, ma come infinita variabilità dei tratti neurologici che caratterizzano tutti gli esseri umani. Poi ci sono persone neurotipiche, che sono la maggioranza, e quelle neurodivergenti o neuroatipiche, che quindi hanno delle caratteristiche che si allontanano dalla media. È una categoria nella quale potrebbero entrare tante persone: non c’è nemmeno accordo su quante siano, in realtà. Se i confini tra ciò che è normale e ciò che non lo è diventano sempre più labili vengono a mancare le etichette e quello che resta è la grande categoria di neurodiversità, che abbraccia tutti. È un termine politico, identitario, non medico, anche se ci sono dei professionisti che hanno iniziato a utilizzarlo.
Per esempio?
Lo psicologo inglese Simon Baron-Cohen, nel 2017, ha scritto un famoso articolo (Neurodiversity – a revolutionary concept for autism and psychiatry, ndr), in cui incita i colleghi e le colleghe a utilizzare il paradigma della neurodiversità e a guardare l’autismo come una serie di caratteristiche neurologiche, non più come una patologia. Suggerisce di indicare lo spettro come una condizione, non come un disturbo.
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