Sono passati quattro mesi dall'entrata in vigore dell'accordo siglato il 18 marzo scorso fra i 28 leader degli Stati dell'Unione Europea e l'allora primo ministro turco Ahmet Davutoğlu. Un accordo criticatissimo di cui si scriveva che sarebbe rimasto inattuato o, peggio, sarebbe stato disatteso dalla Turchia. A quattro mesi dall'entrata in vigore, facciamo il punto della situazione con la professoressa Chiara Favilli insegna Diritto dell'Unione europea all'Università di Firenze, esperta di politiche europee di immigrazione e asilo.
I punti chiave
Professoressa Favilli, qual è lo stato delle cose sull’accordo fra UE e Turchia?
L’accordo è costituito da più documenti che ne identificano il contenuto. L’ultimo, lo statement del 18 marzo del 2016, è entrato in vigore dal 20 marzo 2016 e da allora hanno iniziato a essere operativi i vari strumenti in esso previsti. Uno su tutti: il finanziamento dell’UE alla Turchia, che va in parte a gravare sul bilancio dell’Unione e in parte pesa sui bilanci dei singoli stati membri.
Di che cifra stiamo parlando?
Parliamo di 3miliardi di euro, di cui 1 a carico del bilancio dell’UE e 2 a carico degli Stati membri. Questi finanziamenti hanno una pluralità di finalità, una di queste è il sostegno alla Turchia nell’accoglienza ai rifugiati, in particolare i siriani che in Turchia hanno una protezione temporanea, non un vero e proprio status di rifugiato. Poi c’è, ovviamente, il sostegno per il controllo delle frontiere della Turchia per contrastare, da un lato, i trafficanti di esseri umani e, dall’altro, per evitare che le persone lascino la Turchia e attraverso un canale irregolare arrivino nelle isole greche. In maniera molto sommaria, questi sono i due grandi ambiti di finanziamento dell’UE.
L’Unione finanzia e la Turchia si impegna a “accogliere e contenere” il flusso di migranti e a contrastare i trafficanti…
Questa è la parte più operativa dell’accordo. I finanziamenti sono stati individuati e gli Stati hanno già dato le loro indicazioni per erogare questi fondi. D’altro canto, vediamo che anche la Turchia sta effettuando una serie di attività, sia nel senso dell’accoglienza sia in quello del contrasto. Nel senso dell’accoglienza, perché era stato chiesto alla Turchia – e la Turchia l’ha fatto – di garantire sul piano normativo l’accesso al lavoro dei cittadini siriani. Cittadini che, non avendo lo status di rifugiato ma solo una protezione temporanea, non potevano avere accesso al mercato del lavoro fino alla modifica legislativa apportata in virtù di questo accordo. Inoltre, alla Turchia è stato chiesto di garantire ai siriani una protezione effettiva, anche nel caso siano rientrati nel territorio turco dopo essersi allontanati. Ai siriani è infatti riconosciuta in Turchia per legge la protezione temporanea che, però, veniva persa se lasciavano il Paese. L’UE ha dunque chiesto alla Turchia di riconoscere o di mantenere la protezione anche a coloro che, appunto, fanno ritorno in Turchia dopo essersi allontanati.
Il primo ministro turco Ahmet Davutoglu, il presidente del Consiglio d'Europa Donald Tusk e quello della Commissione europea Jean-Claude Juncker // Bruxelles 18 marzo 2016, fotografia di Carl Court/Getty Images
Il rimpatrio: un meccanismo inedito
In Turchia ci sono 2milioni e 800mila persone ospitate. Il fatto che l’UE finanzi la Turchia sembra essere abbastanza plausibile. Anzi, potremmo dire che è nell’ordine delle cose. C’è però qualche aspetto più preoccupante dell’Accordo?
L’aspetto problematico è che si individua un meccanismo di rimpatrio dei richiedenti asilo. È la prima volta che abbiamo uno strumento normativo, scritto nero su bianco, con il quale si prevede espressamente il rimpatrio dei richiedenti asilo. Si tratta di una novità normativa preoccupante. Fino ad oggi, il principio cardine è stato quello del diritto di accesso dei richiedenti asilo ai territori dell’UE e anche il dovere da parte degli Stati di esaminare le domande e di accogliere coloro che hanno visto riconosciuto lo status di protezione, nel presupposto che nell’UE ci sono degli standards conformi alla Convenzione di Ginevra. Presupposti che difficilmente si trovano in altri Stati. Finora chi è arrivato in Europa per chiedere asilo è rimasto in Europa. Ma ora si è reso operativo un nuovo strumento, il rimpatrio.
Come si è arrivati a questo strumento?
Applicando una direttiva dell’UE, la n. 2013/32, che prevede la possibilità di dichiarare inammissibili le richieste di asilo.
Senza nemmeno vagliarle?
Diciamo con un esame sommario. Nella fattispecie, l’obiettivo è verificare se i siriani che sono arrivati in Grecia dopo il 20 marzo, siriani provenienti dalla Turchia, possano tornare in Turchia perché la Turchia, per loro, può essere qualificata come Stato di primo asilo oppure possa essere considerata uno Stato terzo sicuro dove possano comunque ottenere la protezione.
Questo meccanismo del rimpatrio è collegato alla riammissione…
Si parla infatti di meccanismo “1 a 1”: per ogni siriano riammesso in Turchia, deve essercene uno che – come dice l’accordo – deve essere “reinsediato” – io preferisco dire “ammesso” – nell’UE. Questo viene incontro alla necessità di avere dei canali legali di ingresso per disincentivare il ricorso all’ingresso irregolare, mostrando che chi arriva irregolarmente viene rimpatriato anche se è un richiedente asilo e, contemporaneamente, chi non lo ha fatto può entrare perché esiste un canale regolare di ammissione dei siriani.
Al momento come funziona il meccanismo?
I dati sono stati pubblicati il 15 giugno. Da questi dati vediamo che sono stati ammessi 511 siriani. Mentre ne sono stati rimpatriati 31. Oltretutto, quei 31 sono stati rimpatriati tutti su base volontaria. Ad oggi, non c’è nessuno dei richiedenti asilo che sia stato rimpatriato in maniera forzata dalla Grecia verso la Turchia…
Quindi se stiamo ai numeri, l’accordo funziona…
Se stiamo ai numeri degli sbarchi sì, l’accordo ha senz’altro raggiunto i propri obiettivi per quanto riguarda la necessità di interrompere il flusso di migrazioni dalla Turchia verso la Grecia. La media giornaliera è passata da circa 1300 siriani al giorno a 47 al giorno. Sono diminuiti drasticamente anche i morti in mare.
Che cosa ha permesso il raggiungimento di questo obiettivo?
Di certo non il meccanismo di rimpatrio: sono solo 31 le persone rimpatriate. È evidente dunque che non sono i rimpatri o il timore di questi ad avere diminuito gli sbarchi, quanto l’avvio da parte della Turchia di una efficace attività di contrasto delle reti di trafficanti e di presidio delle proprie frontiere, cosa che non aveva fatto fino ad ora.
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Dai dati pubblicati il 15 giugno scopriamo che sono stati ammessi 511 siriani. Mentre ne sono stati rimpatriati 31. Oltretutto, quei 31 sono stati rimpatriati tutti su base volontaria. Ad oggi, non c’è nessuno dei richiedenti asilo che sia stato rimpatriato in maniera forzata dalla Grecia verso la Turchia…
I nodi critici
Il giudizio sull’accordo UE-Turchia può essere positivo?
Dobbiamo valutare l’efficacia dell’accordo sulla base di quello che era il suo obiettivo, non di altro. E il suo obiettivo era il contenimento dei flussi. Poi dobbiamo anche porci il quesito se l’accordo fornisce una risposta anche per la tragedia umanitaria dei rifugiati siriani. La questione diventa allora un’altra: la Turchia sta offrendo davvero un’adeguata protezione ai rifugiati siriani? Credo che di questo dovremmo preoccuparci adesso.
Bisogna forse capire come operare anche sul fronte dei meccanismi verifica degli investimenti. Le cose cambiano se i soldi che arrivano dall’UE vengono destinati unicamente al presidio delle frontiere o, invece, sono destinati per migliorare le condizioni dei rifugiati…
Parliamo 3 miliardi più altri 3 che saranno stanziati successivamente. Concentrarci su come verranno spesi è determinante come è determinante capire che standards di tutela hanno le persone in Turchia.
Torniamo al numero dei rimpatri: sono solo 31, un numero inaspettato…
La Direttiva europea prevede la possibilità della decisione di inammissibilità della domanda di asilo, ma tutela il diritto individuale di presentare ricorso contro la decisione. Sul piano formale ci deve essere una decisione, ci deve essere un esame individuale e ci deve essere un ricorso.
Profughi siriani nel campo di Moria
Fabio Bucciarelli/AFP/Getty Images
Che cosa è accaduto in questi due mesi?
Ci sono ancora 2300 siriani in attesa di decisione e alcune centinaia di decisioni di inammissibilità su cui sono stati presentati ricorsi. Le Commissioni d’appello greche hanno accolto tutti i ricorsi…
Con quali motivazioni?
Sostenendo che la Turchia non può essere considerata un Paese di primo asilo o un Paese terzo sicuro per i ricorrenti. Un conto è dire che, in linea teorica generale, la Turchia è un Paese terzo sicuro. Un altro – e le commissioni fanno proprio questo lavoro – è dirlo nel caso concreto relativo alla persona. Il meccanismo del rimpatrio non ha funzionato per questo motivo: perché le Commissioni d’Appello greche hanno accolto tutti i ricorsi. E questa, al netto di alcuni profili complicati, è la ragione che rende legittimo l’accordo. C’è davvero un rimpatrio dei richiedenti asilo? Al momento no, perché i rimpatri sono stati solo su base volontaria. Tuttavia, dieci giorni fa, una riforma in Grecia ha modificato la composizione delle Commissioni d’Appello. Le notizie di stampa ci dicono che questa riforma avviene su pressione della Commissione Europea, affinché una nuova composizione delle Commissioni porti a risultati diversi. Finora queste Commissioni erano composte per 2 membri su 3 da rappresentanti di organizzazioni come UNHCR…
Noi finora abbiamo parlato di un accordo fra UE e Turchia, ma quello di cui parliamo non è qualificato come tale…
Abbiamo infatti una dichiarazione, una comunicazione della Commissione Europea e una previa intesa del 6 febbraio. Sono tre documenti dai quali si ricava il contenuto e nessuno di questi documenti è qualificato come “accordo”.
Perché non si è fatto semplicemente un accordo?
Perché per la conclusione di un accordo internazionale occorre seguire la procedura prevista nel trattato sul funzionamento dell’Unione Europa che prevede il coinvolgimento del Parlamento europeo. Invece, in questo caso, si è seguita una procedura non prevista, del tutto informale…
E nella quale le istituzioni europee non giocavano nemmeno il ruolo di protagoniste…
La dichiarazione è stata infatti concordata dai capi di Stato e di governo dell’Unione Europea, non è né il Consiglio europeo – che pure è composto dai capi di Stato e di governo dell’UE. Non è l’istituzione ad aver concordato la dichiarazione. È un segno di grande debolezza dell’attuale situazione europea: i governi si sono sostituiti alle istituzione europee in una competenza dell’Unione, usando le sedi dell’Unione e anche una parte dei suoi finanziamenti, però in spregio a tutte le prerogative delle regole e delle procedure…
Decisori deboli e crisi delle istituzioni
Solo all’apparenza l’accordo è frutto di decisionismo, in realtà segna la crisi dei processi decisionali…
Questo è evidente anche oggi nel dibattito post-Brexit. Le dichiarazioni del ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble che auspica un depotenziamento del potere della Commissione e un maggiore intervento dei singoli Governi va in questa direzione.
E in Italia?
Anche in Italia esiste una disinvoltura del Governo nell’approvazione di accordi in forma semplificata, anche in materia di immigrazione.
Che cosa non va in questi accordi?
C’è un punto che non si dovrebbe mai superare: non bisogna usare un accordo internazionale per ottenere obiettivi che sul piano nazionale non si riescono a ottenere. I governi lo fanno, sia a livello interno, sia a livello di UE. In questo caso, quello che si è fatto è prevedere un accordo in maniera informale facendone scaturire degli obblighi per degli Stati, pensiamo alla Grecia. La Grecia ha modificato la legge sulla composizione delle commissioni, ma ha anche modificato una propria legge per rendere più agevole la dichiarazione di inammissibilità di cui parlavamo prima.
4 aprile 2016, una nave riporta i migranti nel porto di Dikili in Turchia
Ozan Kose/AFP/Getty Images
In Italia può esserci una dichiarazione di inammissibilità come quella di cui stiamo parlando?
No, perché non abbiamo recepito la parte della direttiva che riguarda lo Stato di primo asilo o lo Stato terzo sicuro. Essendo concetti fortemente dibattuti, sono rimasti allo stadio dell’opzione. Per la Grecia, invece, l’opzione è diventata un obbligo.
Una spirale tecnocratica…
Più che tecnocrati, qui i responsabili sono i Governi. I Governi dei singoli Stati hanno utilizzato la sede dell’Unione – queste riunioni si sono svolte a Bruxelles – ma per fini propri. Dal punto di vista mediatico, però l’Unione Europea compare sempre. Se va male, ci rimette l’Unione, ma se un obiettivo viene raggiunto – come, ragionando in termini pragmatici, quello che l’accordo di cui discutiamo voleva conseguire – non se ne parla. Oggi ci sono vene euroscettiche ovunque, sulla scia della crisi dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Ma che il flusso dalla Turchia sia stato per il momento bloccato non viene evidenziato.
Soprattutto in questo ambito è difficile trovare un’analisi lucida…
È difficile soprattutto trovare uno spazio dibattito in cui ragionare sui poteri da dare all’Unione. Poteri di cui l’UE necessità per governare i processi. Ma questo è un tema troppo sensibile sul piano della politica interna: perdere questa competenza sul piano nazionale, significa anche per le forze politiche perdere una “leva elettorale” molto efficace.
L'Europa come alibi
Lo abbiamo visto in Austria e Ungheria, con continue tensioni sul tema dei rifugiati…
Pensiamo se a livello nazionale venisse meno il tema centrale dell’immigrazione. Gli equilibri sarebbero molto diversi, si parlerebbe d’altro: di economia, di sociale, di cultura.
Poi è ovvio che ci deve essere il livello politico in cui se ne parla…
Spostare l’asse a livello europeo non significa consegnarlo alla tecnocrazia.
La situazione però è ben diversa: la pressione rimane sull’asse locale, i politici capitalizzano la tensione eppure si aprono nuovi scenari. Quali a suo avviso?
Per esempio quello di usare l’accordo con la Turchia come modello con altri Paesi. Questo è quello che si vuole fare e, in parte, si sta facendo. Il Consiglio europeo del 28 giugno ha approvato un documento sulla cooperazione con i Paesi terzi, in particolare con i Paesi africani. Proprio questi Paesi sono quelli che destano più preoccupazione e con essi si vuole procedere in tema di finanziamenti con il principio “more to more”, più aiuti in cambio di più controlli dei flussi e contrasto ai trafficanti. Un modello di esternalizzazione delle politiche di controllo dell’immigrazione che era nell’aria dal 2003, che oggi ritorna e che sembra proprio divenire la chiave dei rapporti con i Paesi terzi. Si sta configurando una nuova idea, ossia che occorre veicolare i finanziamenti della cooperazione allo sviluppo per avere una gestione ordinata dei flussi migratori. Finora si è riusciti a salvaguardare la specificità dei fondi alla cooperazione e allo sviluppo. Fondi che devono avere una specificità mirata allo sviluppo dello Stato e non finalizzata al conseguimento di obiettivi dell’Unione. Possono esserci anche quelli, ci devono essere, ma la cooperazione ha un senso e la si chiama tale se ha la finalità primaria di sviluppo delle comunità beneficiarie.
Altrimenti è attività di polizia…
Altrimenti il rischio è che a rimetterci siano le persone, le più deboli, come sempre.
L'ospite
Chiara Favilli è professore associato di Diritto dell’Unione europea nell’Università di Firenze. È autrice di tre monografie (I limiti internazionali all’espulsione degli stranieri – 1998, La non discriminazione nell’Unione Europea – 2008 e Migration law in Italy – 2013) e di numerose pubblicazioni su vari temi di Diritto dell’Unione europea.
Ha seguito l’evoluzione delle politiche europee di immigrazione e di asilo sin dalle loro origini e collabora con avvocati e associazioni impegnate nelle medesime materie. Fa parte del comitato di redazione della rivista Diritto, immigrazione e cittadinanza e dal 2012 è il membro italiano della rete di esperti indipendenti in materia di non discriminazione promossa dalla Commissione europea.
In copertina: fotografia di Chris McGrath/Getty Images
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