Fabio Geda

Tra le donne incinte dell’Angola ho riscoperto il senso dell’attesa

di Rossana Certini

Il senso dell'attesa, la diversa concezione del tempo, il significato profondo della cooperazione internazionale. Lo scrittore torinese è in libreria con il suo nuovo libro “La casa dell’attesa”, un reportage narrativo nato in Angola, nel villaggio per donne incinte del Cuamm. «La cooperazione non è “aiutare”, ma “restituire”»

«Un luogo di accoglienza per donne incinte lo immaginavo come una grande casa piena di mamme e bambini. Un po’ come avevo letto nei romanzi sudamericani». È così che Fabio Geda racconta come aveva immaginato La casa d’espera, il luogo dove è ambientato il suo ultimo libro. Lo scrittore torinese, autore del best seller Nel mare ci sono i coccodrilli (Baldini + Castoldi 2010), dopo aver esplorato nei suoi libri temi intergenerazionali, familiari e sociali, questa volta porta il lettore in Angola, in un rifugio per le donne in gravidanza realizzato da Medici con l’Africa – Cuamm, l’organizzazione italiana che si spende per la promozione e la tutela della salute delle popolazioni africane.

La casa dell’attesa, questo il titolo del libro edito da Laterza, in libreria dal 25 marzo, è un racconto di relazioni più che di luoghi in cui l’autore intreccia storie di ieri e di oggi con episodi della sua stessa vita. C’è la figura del presidente Agostinho Neto, medico, poeta e padre della patria, che ha guidato il paese dal 1975 al 1979 la cui storia, spiega Geda, «è inaspettatamente legata a quella del nostro Paese, infatti il suo primo libro di poesie è stato tradotto dalla poetessa fiorentina Joyce Lussu». E c’è il racconto della vita in Angola di Natascia, la prima pediatra che lo scrittore ha incontrato arrivando in Africa. «La ricordo esausta», racconta, «Credo fosse operativa nell’ospedale di Chiulo da due anni. Un giorno le stavo parlando ed è arrivata una donna angolana. Il volto di Natascia si è illuminato. Le due donne si sono abbracciate. Alla vista della scena ho intuito che c’era di mezzo la vita di un bambino, ma non capivo in che termini. Poi, come scrivo nel libro, ho scoperto che il bambino in questione aveva due o tre mesi ed era arrivato al centro in condizioni di grave sofferenza nutrizionale, a causa della morte della madre. Il bambino era stato ricoverato e si era salvato per miracolo anche grazie al cuore di quella donna angolana che, scoprirò, aveva 45 anni ed era la bisnonna del bambino». È il gancio per il racconto di un episodio della vita personale dell’autore, come il ricordo della nonna morta di parto ai primi del Novecento.

Fabio Geda, come è nata l’idea di scrivere questo libro e cosa l’ha spinta a raccontare la realtà di Medici con l’Africa – Cuamm?

L’idea del libro è nata nell’estate del 2023, quando Giuseppe Laterza mi ha proposto di scrivere di Medici con l’Africa – Cuamm. Mi sono lasciato coinvolgere dai racconti dei medici e dei volontari, scoprendo cosa fanno nei Paesi in cui operano e mi sono immerso nelle storie che mi hanno raccontato. Ho cercato di mettermi nei panni di chi ogni giorno lotta per salvare vite umane in luoghi dove guerre e povertà rendono la sopravvivenza una sfida quotidiana. A un certo punto, quando mi hanno parlato dell’Angola e della Casa d’espera dell’ospedale di Chiulo, dentro di me qualcosa è scattato. Quando hanno cominciato a descrivermi quella realtà, ho pensato subito: “mi piace.” Subito ho pensato che la casa d’espera, che in portoghese significa “casa dell’attesa”, era già un titolo perfetto per un libro.

Cosa dei racconti che i medici e i volontari che lavorano in Angola l’ha spinta a focalizzarsi su questa specifica esperienza?

Inizialmente, mi aveva colpito l’idea di un luogo di accoglienza per donne incinte. Lo immaginavo, un po’ ingenuamente, come una grande casa, simile a quelle descritte dagli scrittori sudamericani, abitata da donne che vivevano insieme in attesa del parto.

Immaginavo di trovare una grande casa, abitata da donne che vivono insieme in attesa del parto. Invece La casa d’espera non è solo un rifugio, ma una vera e propria riproduzione di una comunità rurale

Fabio Geda

E invece?

Invece quando sono arrivato per la prima volta davanti al cancello della Casa d’espera, nel marzo del 2024, mi sono reso conto che non si trattava affatto di una casa, ma di un piccolo villaggio. Un’area recintata che riproduce i villaggi tipici dell’Angola, dove le comunità vivono in piccoli ripari di pietra, con muri solidi e tettoie che offrono riparo. Spazi con lavatoi e angoli per cucinare con la legna. La casa d’espera non è solo un rifugio, ma una vera e propria riproduzione di una comunità rurale. Le donne arrivano circa un mese prima del parto, ricevendo un kit giornaliero per il cibo da Medici con l’Africa – Cuamm e aspettano in sicurezza il momento del parto, vivendo vicino all’ospedale. In questo modo si riducono significativamente i rischi legati a complicazioni che potrebbero insorgere partorendo in casa senza assistenza o facendo un lungo viaggio all’ultimo momento per arrivare dal proprio villaggio alla clinica. Questo tipo di accoglienza, che potrebbe sembrare normale ai nostri occhi, non lo è affatto in quel contesto. Bisogna considerare che in Angola, e in generale in Africa, le donne ricoprono un ruolo fondamentale nella gestione quotidiana del villaggio: non solo si occupano della casa e dei figli, ma sono anche quelle che lavorano nei campi o percorrono chilometri per prendere l’acqua potabile dai pozzi. Perciò, non è affatto semplice per una donna allontanarsi dal proprio villaggio per un mese o più.

Vivere nel villaggio de La casa d’espera cosa le ha permesso di comprendere di quel luogo?

Sono stato a Chiulo due volte: la prima per poco più di una settimana a marzo dello scorso anno, e poi sono tornato per altre quattro settimane a giugno. Questa scelta è stata dettata dal fatto che sapevo che arrivare in quel luogo mi avrebbe profondamente emozionato e volevo dare il tempo alle sensazioni provate di sedimentarsi dentro di me, per poi tornare a La casa d’espera con una maggiore consapevolezza. La prima cosa che ho compreso nel villaggio è che esistono mille modi di “attendere”.

Cosa vuol dire che ci sono mille modi di attedente?

Si può aspettare la nascita di un bambino, ma anche la pioggia, che in quella regione, segnata dalla siccità, tarda ad arrivare. Si può attendere lungo la strada che qualcuno passi a comprarti gli ortaggi che stai vendendo. In Angola, è normale vedere persone in coda per qualsiasi cosa. Ma l’attesa è anche quella degli operatori, che vivono lì, immersi in un tempo da attraversare con caparbietà e perseveranza. Credo che questo mio ultimo libro sia diventato soprattutto un racconto della caparbietà e della perseveranza di chi lavora in quei territori. Noi, qui, viviamo in un mondo molto prestazionale, facciamo le cose con l’aspettativa di ottenere risultati rapidi: se non arrivano, abbandoniamo ciò che stiamo facendo e cerchiamo altro che ci dia soddisfazioni immediate. In Africa, invece, si impara che i risultati non sono sempre successi eclatanti, ma piccoli passi che si conquistano dopo molti anni. Per arrivare a cambiamenti visibili in quelle terre difficili, è necessario incidere su pratiche culturali che non possono essere modificate in breve tempo.

Questo libro è soprattutto un racconto della caparbietà e della perseveranza di chi lavora in quei territori. Noi qui facciamo le cose con l’aspettativa di ottenere risultati rapidi che ci diano soddisfazioni immediate. In Africa, invece, si impara che i risultati sono piccoli passi che si conquistano dopo molti anni

Fabio Geda

Se dovesse descrivere in poche parole che tipo di libro è La casa dell’attesa cosa direbbe?

Il libro ha la struttura di un reportage narrativo, costruito come una tessitura di storie e voci che guidano il lettore a riflettere su concetti chiave come l’attesa e il tempo. Io sono il protagonista, la voce narrante. Non avrebbe potuto essere altrimenti, perché mentre scrivevo, sono accadute alcune cose buffe che hanno intrecciato la mia vita personale con la narrazione del libro. Ad esempio, mentre stavo andando in Angola, ho fatto scalo a Lisbona e lì sono stato ricoverato per una congestione. Così, ho iniziato il mio viaggio verso l’Angola per visitare un ospedale rurale finendo io stesso in ospedale. Chi legge in qualche modo empatizza con me, con il mio viaggio, con le mie scoperte, perché poi io ho studiato tanto. Sono stato nel villaggio un mese ma tornato in Italia ho passato mesi a studiare, leggere e ad ascoltare testimonianze. Chi legge questo libro entra dentro questo mio viaggio.

Di tutte le esperienze che ha vissuto a Chiulo, quale l’ha segnata più profondamente?

Quello che davvero mi ha colpito profondamente è stato entrare nel reparto nutrizionale dell’ospedale. È stata un’esperienza fortissima, emozionante e dolorosissima. Non sono certo all’oscuro della realtà dei bambini malnutriti, ma vederli dal vivo è stato qualcosa di indescrivibile. Sono bambini che arrivano dai villaggi, spesso dopo che il Cuamm ha effettuato screening con le brigate mobili in giro per il territorio. Quando trovano bambini piccoli e malnutriti, li portano in ospedale.

Dopo aver attraversato la maternità vivendo con le donne che ha conosciuto in Angola, è cambiata la sua visione di cosa vuol dire essere madre?

Mi sono portato a casa l’idea che la maternità è un concetto universale. Le mamme lì sono esattamente come le mamme che vivono qui da noi. L’affetto per un figlio, il dolore per la perdita di un bambino o la gioia per una nascita non cambiano mai. Certo, ci sono delle differenze. Ad esempio, lì i bambini ricevono il nome solo alcune settimane dopo la nascita, perché non si sa mai cosa possa accadere dopo il parto. C’è sempre il rischio di morte. Inoltre, prima della nascita, non si sa nulla del bambino: non si sa se sarà maschio o femmina, né se sarà sano. Questo rende difficile scegliere il nome. Ecco che torna il tema dell’attesa. Attendiamo che nasca e poi gli diamo il nome, poi torniamo casa da tutti gli altri fratelli e sorelle magari facciamo una grande festa e cominciamo a vivere con questo nuovo essere umano. Noi, invece, abbiamo una proiezione sul futuro del nascituro fin dal concepimento.

Che cosa ha significato per lei scrivere questo libro?

Collaborare con il Cuamm è stato per me un po’ come riconnettermi con un prezzo di me che apparteneva al passato. Io ho fatto scautismo per molti anni, ho un passato nell’associazionismo cattolico, dunque questi sono ambienti in cui io mi sento immediatamente a casa anche se sono ambienti da cui mancavo da un po’. Con tutte le persone che lavorano a La casa d’espera mi sono trovato in grande sintonia, perché parlavamo lo stesso linguaggio. Poi andare in Africa, in particolare in Angola, è stato un salto, un viaggio in una realtà che non avevo mai visto. Ero stato in Brasile negli anni ‘90, è lì per la prima volta che mi ero davvero sentito straniero in vita mia, ma in Angola è stato una sensazione ancora più potente, ho proprio avuto la sensazione di faticare a capire ciò che avevo intorno. Io so che il mondo è complesso ma una cosa è saperlo una cosa è sperimentarlo sulla propria pelle come ho fatto in Angola.

In Angola ho avuto la sensazione potente di faticare a capire ciò che avevo intorno. Io so che il mondo è complesso, ma una cosa è saperlo una cosa è sperimentarlo sulla propria pelle

Fabio Geda

Ci descrive una complessità che ha sperimentato più di altre in Angola?

Per esempio il concetto di tempo. Lì l’ho percepito come uno degli aspetti che rendono quella vita estremamente difficile. Ho percepito la mostruosa fatica che le persone fanno a fare qualunque cosa. Per esempio devi attendere tre ore prima di avere l’acqua perché il ragazzino deve andare al pozzo camminando per un ora all’andata e un’altra al ritorno.

Questa esperienza ha rafforzato in me un profondo senso di privilegio per la vita che ho e con esso la consapevolezza della responsabilità legata a questo privilegio. La cooperazione non è solo “andiamo ad aiutare”, ma “andiamo a restituire”

Fabio Geda

Quanto l’ha cambiata questa esperienza? Se l’ha cambiata.

Questa esperienza ha rafforzato in me un profondo senso di privilegio per la vita che ho, e con esso la consapevolezza di dover sentire e percepire la responsabilità legata a questo privilegio. Devo essere grato per il fatto di essere nato, per caso, in un luogo del mondo in cui sono un privilegiato, e vivere come tale. Ma questo non deve essere accompagnato da sensi di colpa, perché non è colpa mia. Tuttavia, c’è una chiamata alla restituzione. La chiamata alla restituzione è fondamentale per me. Quando si parla di cooperazione, non è solo “andiamo ad aiutare”, ma “andiamo a restituire”. Se viviamo così in Occidente è perché abbiamo preso tantissima ricchezza da quel luogo e quindi spetta a noi restituire qualcosa.

Concludendo, perché dovremmo leggere La casa dell’attesa?

È un libro che deve essere letto oggi, soprattutto oggi, perché in questi nostri tempi la cooperazione è in pericolo. È un libro che aiuta a capire perché è importante la cooperazione e perché è importante per lo sviluppo di quelle terre. Immaginiamo sempre che le organizzazioni umanitarie arrivano quando c’è un’emergenza: una guerra, una calamità naturale o una carestia. Invece, c’è un lavoro prezioso che spesso non si vede e che è quello quotidiano di sostegno allo sviluppo delle popolazioni in difficoltà. Il fine è renderle autonome, capaci di fare da sole prima o poi.

Nell’immagine di apertura Fabio Geda in Angola (Foto: ©NicolaBerti/Cuamm)

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