Erik Gandini

Svezia: hanno fatto il deserto e l’hanno chiamato “libertà”

di Marco Dotti

Era il paradiso del welfare, la meta di ogni sogno di liberazione. Che cosa è successo alla Svezia? Nel suo ultimo documentario, in uscita nelle sale dal 22 ottobre, l'autore di "Videocracy" Erik Gandini racconta un Paese in cui l'isolamento è la forma primaria di vita, sempre più donne single scelgono la fecondazione artificiale e tanti, troppi anziani muoiono soli, dimenticati da tutti. La Svezia: alba del welfare che verrà o suo definitivo tramonto? Ne parliamo col regista

Era il paradiso del welfare, la meta di ogni sogno di liberazione. Che cosa è successo alla Svezia? A dispetto dei numeri – ma la realtà non è fatta di numeri – del recente Rapporto McKinsey, nel suo ultimo documentario Erik Gandini racconta un Paese in cui le persone vivono isolate, sempre più donne single scelgono la fecondazione artificiale e molti anziani muoiono da soli, dimenticati da tutti. E con 80 euro vi spediscono anche il kit per la fecondazione artificiale a domicilio

«Nell'inverno del '72, un gruppo di politici ebbe una visione rivoluzionaria del futuro. Era giunto il momento di liberare le donne dagli uomini, gli anziani dai figli, gli adolescenti dai genitori». Venne scritto anche un manifesto, La famiglia del futuro. A volerlo, fu la sezione femminile del partito socialdemocratico allora guidato dal primo ministro Olof Palme. Che cosa prevedeva il documento? Ce lo spiega Erik Gandini, regista nato a Bergamo nel 1967, naturalizzato svedese, autore del rinomato Videocracy, che in Svezia vive e lavora. Lo spiega in un film molto importante: La teoria svedese dell'amore. Il lavoro di Gandini, distribuito da Lab80, sarà nelle sale cinematografiche italiane, in versione integrale, dal 22 settembre.

L’importanza che ha l’autonomia e il valore che le viene dato dagli svedesi, ci spiega Gandini, «mi ha sempre affascinato. La Svezia è il paese più individualista del mondo ed è costruito per essere così, sembra quasi che il sistema dica: “Aiutamoci a liberarci gli uni dagli altri” ma così si genera anche un forte senso di solitudine. Il mio film è volutamente provocatorio, la mia prospettiva si focalizza sulle ombre che esistono nel sistema. Mi piace mettere in discussione le idee più indiscutibili e questo modello di società in Svezia è assolutamente intoccabile. L’obiettivo del film è insinuare un dubbio: se l’ossessione per l’autosufficienza e il mito dell’autonomia dell’individuo si rivelassero essere una strada a fondo chiuso, in Svezia come negli altri paesi occidentali, Italia compresa».

La teoria dell’indipendenza e il mito dell’autosufficienza sono molto radicati nella cultura svedese e vengono espressi nella loro essenza nella “Teoria Svedese dell’amore” – da qui il titolo del docufilm – coniata dagli storici Lars Trägårdh e Henrik Berggren per definire ciò che più caratterizza la cultura scandinava quando si tratta di relazioni umane. Sostanzialmente, in questa teoria, si sostiene che l’amore autentico può esistere solo tra due persone che siano indipendenti l’una dall’altra, che non stiano insieme per fini materiali o per dipendenza economica, come invece succede spesso in società meno eque. L’idea, ci spiega Gandini, «da un punto di vista economico non fa una piega, anzi, ma nella sua estensione esistenziale può trasformarsi in un’ossessione all’autosufficienza. In una diffusa e radicata convinzione che le relazioni umane debbano in primo luogo basarsi sull’essere liberi gli uni dagli altri. Il rischio è evidente in Svezia come in molti paesi occidentali: la dilagante solitudine che, ad esempio, ha portato l’intellettuale inglese George Monbiot a definire la nostra epoca “L’era della solitudine”»

«Da fuori la Svezia sembra una terra promessa, un luogo perfetto dove poter vivere una vita migliore, una meta di arrivo per cui vale la pena correre grossi rischi», racconta la tua voce narrante, fuoricampo, in questo film. È davvero così?
Ho scelto di vivere in Svezia, proprio per tutte le cose per cui la Svezia è conosciuta. È un Paese che, diciamo, “funziona” bene. Molto bene, forse troppo. Diventa difficile, allora, fare una critica a questo Paese efficiente, dove tutti i dati sono positivi, dove la gente è felice, dove tutti sono accolti… L’economia, l’educazione, il rapporto etico fra cittadini e istituzioni: la Svezia offre di sé l’immagine di un Paese da prendere a modello di perfezione. Ma la cosa che mi interessa di più, da un punto di vista sociologico, cinematograficamente parlando, è un’altra.

Quale?
Visto che la Svezia è rappresentata come «il Paese più bello, felice, tollerante del mondo» mi interessava provocare una torsione nello sguardo. Mi interessava osservare un risvolto di cui si parla molto poco. Un risvolto che ha a che fare con le relazioni umane e che, secondo me, la rende un case study e, al contempo, un laboratorio perfetto per guardare al futuro. Il film, se vuoi, è uno sguardo al futuro.

Che cosa vediamo, allora, in questo futuro letto attraverso il prisma Svedese?
Capiamo che se questa è la direzione di tutto l’Occidente, se questa è l’inevitabile conseguenza di uno stile di vita è giusto chiedersi, nella sua versione più aberrante, che cosa ne sarà di noi.

Potremmo definirlo un film a tesi?
Non essendo un giornalista, ma un filmaker posso permettermi di lavorare a tesi. Non devo, per forza di cose, tenermi a un’oggettività fredda, ma posso esprimere quello che penso. Il mio cinema è saggistico, personale, soggettivo.

L'era della solitudine

Ci sono però dei dati di partenza incontrovertibili…
Proprio così, e questi dati spiegano che, in Svezia, non solo la metà della popolazione vive da sola, ma 1 su 4 muore da solo. Parliamo del 25% della popolazione anziana che muore senza avere vicino a sé nessun parente, né un figlio, né un figlia, né un nipote. Io mi interrogo su questi fatti.

I fatti ci parlano di una società della solitudine. Se questo è il futuro, dobbiamo prepararci…
Alcuni anni fa, uscì un articolo di un giornalista e saggista inglese, George Monbiot, The age of loneliness is killing us...

L’era della solitudine ci sta uccidendo…
Esattamente. Monbiot sviluppava la sua riflessione arrivando a un punto: la tensione cruciale della nostra epoca è verso la solitudine. La nostra è l’epoca della solitudine. Quest’articolo ha messo in moto un grande dibattito da cui ha preso spunto anche un serie della BBC. Anche in Inghilterra, non come in Svezia, ma il problema è sentito. Si tratta di una specie di epidemia che si sta diffondendo nei Paesi avanzati, con democrazie consolidate e dove il welfare state ha radici profonde o, addirittura, come in Inghilterra, dove il welfare state è nato.

La teoria svedese dell’amore tocca, al tempo stesso, radici e possibilità, genesi e possibili sviluppi della vita nel tempo di un welfare in declino, anche fuori dai confini prettamente svedesi della questione…
Proprio per questo sono contento che il film esca anche in Italia. Spero non diventi un esempio di esotismo al contrario, del tipo «guarda come sono fatti questi svedesi…». D’altronde, quando uscì Videocracy molti dissero «ma l’Italia non è così, non siamo così». Infatti, l’Italia non è così, è “anche” così. Si tratta di sguardi. Il film cerca di cogliere un tratto molto globale, ossia la deriva verso l’individualismo. Spesso, per etichettare questa deriva, si usa l’espressione “Generation Me Me Me”, la generazione “io, io, io”.

Ci sono tanti risvolti che, peraltro, i sociademocratici all’epoca non potevano prevedere.
La loro era infatti un’idea progressista e molto interessata a rompere il ruolo della donna come casalinga dipendente economicamente dal marito. Avevano l’idea che tutti dovessero avere un lavoro e che tutti diventassero molto presto indipendenti gli uni dagli altri. Questo spiega anche la riforma delle pensioni, che ha “liberato” gli anziani dal dover convivere con i propri figli. Si pensava che, tolte costrizione e necessità, la convivenza genitori-figli o figli-genitori anziani potesse rimettersi alla libera scelta…

In qualche modo, però, si è finiti per sovrapporre libertà ed emancipazione e l’autonomia ha assunto anche tratti regressivi…
Quando la spinta all’autonomia diventa quasi autosufficiente e si trasforma in una tendenza nemica delle relazioni. Una tendenza che vede nelle relazioni qualcosa di limitante, quasi fossero una costrizione a priori, anziché essere le precondizioni del benessere e della libertà. È proprio questa torsione che ho voluto mettere a fuoco nel film. Ho cercato di lavorare con un linguaggio che fosse molto di immagini, che focalizzasse situazioni in grado di far riflettere di per sé. Ovviamente, l’idea di poter procreare senza essere in due è l’ultimo traguardo dell’autonomia…

Nel film è uno dei momenti più sconcertanti, sembra quasi fantascienza…
Invece è realtà. Ma se guardiamo la storia dell’umanità è la prima volta che possiamo sopravvivere senza, per forza, stare assieme. Questi fenomeni, come l’autoinseminazione, devono farci riflettere.

Che diffusione ha l’autoinseminazione in Svezia?
Qui devo essere corretto: è ancora un fenomeno marginale, ma non per questo meno preoccupante. Ad aprile è passata una legge che permette alle donne di essere assistite dallo Stato per l’autofecondazione. Prima di aprile, questa pratica era assistita solo in Danimarca e c’era un grande flusso di persone verso Copenaghen…

Come si vede nel film…
Oggi, a farsi largo, è comunque l’idea che se una donna non ha trovato un compagno entro una certa età e comincia a diventare un po’ troppo tardi, allora può – mi si passi il termine – arrangiarsi da sola. Cosa che, per un uomo, è ovviamente impossibile.

In ogni caso, il direttore della Cryos, la più grande banca del seme al mondo, mi ha confermato che fino a 10 anni fa le donne single che ricorrevano ai suoi servizi per avere un figlio erano pochissime, mentre oggi sono la metà dei suoi clienti.

La tendenza reale è chiara, ma tu la mostri con uno sguardo umoristico…
Tutto è un po’ umoristico nel film, spero si capisca. A me piace giocare sulla semplicità, sullo sguardo quasi naif. Se vedi la scatola con la provetta della Cryos, se la ordini e la ricevi a casa…

Questo ti fa sorridere, è umoristico..
Ma questo stesso movimento ti fa pensare. D’altronde, un’indagine giornalistica condotta alcuni anni fa rivelava che la frequenza di rapporti sessuali è diminuita del 24% dal 1997. Questa indagine giornalistica ha spinto il Ministero della Salute svedese ad avviare una indagini a livello nazionale proprio sulle abitudini sessuali dei cittadini…

Così come ti fa pensare – altra situazione che documenti nella Teoria svedese dell’amore – entrare in un appartamento dove è presente una persona morta da due anni…
Spero sia un incubo per tutti. Se questo è il senso della vita, finire soli, senza che nessuno, nemmeno i figli, si accorgano della nostra morte, allora forse dobbiamo fermarci e ragionare a fondo su quello che sta accadendo alle nostre società.

L’utopia della famiglia diventa una distopia della solitudine…
Qui in Svezia, il film è stato recepito come una provocazione, anche forte e spero efficace. Ma se vivi in un Paese dove l’idea dell’autosufficienza è tanto presente, pervasiva e dominante allora trovi anche comico lo sforzo di tutte quelle persone che si allenano a correre da sole, a non voler dipendere dagli altri… Io sono straniero per metà e percepisco con stupore quest’ossessione dell’autosufficienza. Perché vogliono imparare a vivere soli? In svedese c’è un’espressione, ensam är stark (“da soli si è più forti”). Una delle critiche che mi sono state fatte è che la Svezia è uno dei primi dieci Paesi per quanto riguarda l’indice di soddisfazione sociale e felicità. Questa cosa, però, si scontra con un’altra evidenza: la Svezia è il terzo Paese in Europa per consumo di antidepressivi (il primo Paese è l’Islanda). Forse bisogna stare un po’ attenti agli “indici di felicità”, perché se li guardi di sghembo ti appare tutta un’altra realtà. Ogni Paese crea dei valori che diventano normali, qui la solitudine, l’autosufficienza spinta all’estremo sono diventati valori normali… Proprio questo genere di “normalità” mi preoccupa e quindi ho deciso di mostrarla con uno sguardo estraniante.

Estraniante e, pur partendo da una precisa tesi, non giudicante…
Se ascolti bene la mia voce narrante nella Teoria svedese dell’amore, ma anche in Videocracy, non dico mai “voi”, ma parlo di “noi”. Mi coinvolgo, sono coinvolto, come te, come tutti. Faccio parte, non ho voluto fare un attacco frontale di critica indignata. Lo sguardo “umoristico” è questo, metterci davanti allo specchio.

Davanti allo specchio, può capitare di scoprirsi nudi…
Alla fine del film, Zygmunt Bauman usa una parola: noia. A chi piace, la noia? La noia non piace a nessuno. Allora, anziché mettere certi valori da un lato e altri valori dall’altro, ho cercato di lavorare attorno a ciò che ha reso la noia una tonalità emotiva particolarmente presente nelle nostre società.

Torniamo un attimo sul concetto di egoismo: la Svezia è un Paese con un forte senso di collettività e responsabilità, come è possibile stia accadendo tutto questo?
Il welfare state di per sé, ma anche le riforme pensionistiche e dell’assistenza hanno richiesto negli anni un forte senso di comunità. Come se ci fosse detti «aiutiamoci a liberarci l’uno dall’altro», ma lo si avesse detto in coro, con un grande consenso. Questa è un’attitudine molto forte che, in Svezia, coesiste con uno sforzo per massimizzare l’individualismo… È stato definito statsindividualism individualismo di stato perché è lo stato a finanziare e quindi garantire l'autonomia di ogni cittadino

Un doppio movimento difficile da capire in Italia…
Anche perché qui, ad esempio negli anni del “berlusconismo”, l’individualismo era più del tipo “preoccupati di te, della tua famiglia e dei tuoi amici” e la comunità finisce lì. Una sorta di microcircolo. Sono due forme diverse, due risultati possibili della deriva individualista. In ogni caso, l’individuo esclude l’altro o gli altri da sé.

Quanto tempo hai lavorato al film?
Circa tre anni, ma non in continuità. Quando si fa un film del genere, si mettono assieme dei pezzi e, strada facendo, si è costruito.

Quindi non sei partito da una sceneggiatura?
Nel documentario di questo tipo, il processo è inverso. La “scrittura” della sceneggiatura avviene quasi nel montaggio. È lì che crei una specie di trama, una struttura che puoi completare. Il metodo di lavoro nel documentario è molto diverso da quello della fiction, dove si lavora a priori e poi si materializza con le riprese.

A cosa stai lavorando, ora?
Dal marzo scorso ho avuto la cattedra di professore di cinema documentario alla Stockholm Academy of Dramatic Arts il che comporta sia insegnare che fare ricerca, cioè documentari.

L'ospite

Erik Gandini è nato a Bergamo nel 1967 e si è trasferito in Svezia all’età di 19 anni per frequentare la Biskops Arnö, scuola di cinema-documentario, proseguendo gli studi all’Università di Stoccolma.
È l’autore di: Raja Sarajevo (1994), Surplus: terrorised into being consumers (2003), Gitmo – le nuove regole della guerra (2005) diretto con Tarik Saleh e Videocracy (2009).

Le sale

Ecco l'elenco delle sale – meritorie – che offriranno la possibilità di vedere il lavoro di Gandini di cui abbiamo parlato:

Bergamo, Auditorium – dal 22 settembre (presente regista 22)

Mantova, Cinema del Carbone – dal 23 settembre (presente regista 23)

Milano, Cinema Beltrade – dal 24 settembre(presente regista 24)

Bologna, Cineteca (Lumiere) – 19 ottobre

Perugia, Cinema Postmodernissimo – dal 22 settembre

Gubbio, Cinema Astra – dal 28 settembre

Firenze, Fondazione Stensen – dal 27 settembre

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