Da Garoua, Maroua (Nord Camerun) – I conflitti armati hanno un sapore amaro. Sempre. E come spesso accade quando ti rechi in zone pesantemente fragilizzate dalle armi e dalla povertà, questo sapore può diventare indigesto. In causa non sono soltanto gli sguardi disperatamente assenti di sfollati e rifugiati che incroci sulla tua strada, o le testimonianze crudeli che raccogli in un campo profughi dove la dignità umana barcolla sotto le tende dell’UNHCR. Qui, sulla rotta che collega Garoua a Maroua, nel Nord Camerun, come in Nord Uganda, nel Kivu, in Liberia o Burundi, a rendere la pillola ancora più amara sono la vegetazione straordinaria che ti circonda e il potenziale immenso “di una popolazione che se non fosse per Boko Haram e un governo centrale che per decenni ci ha abbandonati, starebbe meglio, molto meglio. Dal Nord Camerun, esportiamo beni verso la Nigeria e il Ciad, ma per via del conflitto gli sambi commerciali si sono molto ridotti, se non interrotti. Abbiamo poi tre parchi naturali dotati di una fauna eccezionale, ma anche lì i turisti, che già in assenza di infrastrutture non arrivavano in massa, ormai sono spariti dalla circolazione”.
Boko Haram, una minaccia "invisibile"
Con un diploma universitario in tasca e una montagna di frustrazioni sulle spalle, Mamadou, che di mestiere fa l’autista, ha il dono di riassumere in qualche parola lo scenario che mi scorre sotto gli occhi da ormai quattro giorni. In quest’area al confine con la Nigeria e il Ciad, i leoni del parco nazionale di Waza attendono una stagione migliore. Quella secca che torna ad affacciarsi attraverso un sole di piombo non porta nulla di buono. “Assieme all’esercito camerunense, la pioggia è il più grande ostacolo di Boko Haram. Da oggi, torneranno di nuovo a colpire”, confida Aziz Salatou, corrispondente di guerra del quotidiano nazionale Le Jour. Già, i jihadisti di Boko Haram. Tutti ne parlano, ma non si vedono. Eppure i loro danni sono incalcolabili. Da quando il gruppo inserruzionista fondato in Nigeria dal predicatore salafista Mohammed Yussuf ha travalicato la frontiera nel 2011, intensificando i suoi attacchi dal 2014, “le violenze hanno fatto oltre 1.500 morti (di cui 1.400 civili), gettando sulle strade 200mila sfollati camerunensi e circa 85mila rifugiati nigeriani”, ricorda il coordinatore del Programma alimentare mondiale (PAM) nel Nord Camerun, Wilfried Kodjoh.
Assieme all’esercito camerunense, la pioggia è il più grande ostacolo di Boko Haram. Da oggi, con il ritorno della stagione secca, torneranno di nuovo a colpire.
Aziz Salatou, corrispondente di guerra del quotidiano nazionale Le Jour
Dietro le statistiche, ci sono villaggi interi rasi al suolo; allevatori, contadini e pescatori regolarmente assassinati; bestiame e raccolti presi d’assalto, nemmeno le città possono considerarsi al riparo dagli attacchi kamikaze. E’ una guerra strana quella che oppone il regime del Presidente Biya e la ‘setta’ islamista. Il portavoce del ministro della Difesa, Didier Badjeck la riassume così: “Dal 2011 al marzo 2014, Boko Haram ha infiltrato le popolazioni del Nord attraverso una rete di complici locali. Poi sono passati all’offensiva militare adoperando tutte le tecniche di una classica guerra convenzionale”, che comprende l’uso di carri armati. “Eravamo in grandi difficoltà, ma la riorganizzazione del nostro esercito, assieme al supporto della Comunità internazionale, ci hanno consentito di riguadagnare terreno e indebolire fortemente i terroristi”. Dall’inizio del 2016, il conflitto è ormai diventato asimmetrico e vede Boko Haram fare sempre più ricorso ad attacchi sporadici seminando il terrore attraverso l’uso di kamikaze, non solo umani (special modo donne e bambine), ma anche animali. “Chi avrebbe mai pensato che fossero capaci di piazzare esplosivi nascosti attorno ad una mucca”, sottolinea Badjeck tra il serio e il faceto.
Dall’inizio del 2016, il conflitto è ormai diventato asimmetrico e vede Boko Haram fare sempre più ricorso ad attacchi sporadici seminando il terrore attraverso l’uso di kamikaze, non solo umani, ma anche animali.
L’Italia in prima linea nel nord Camerun
A Nord, l’aria che tira non è buona. Lo dimostra l’unità di élite delle forze speciali camerunensi che, armata fino ai denti, accompagna la delegazione camerunense e italiana in missione a Garoua e Maroua, rispettivamente capoluoghi delle regioni del Nord e dell’Estremo Nord del Camerun, per inaugurare e monitorare nuove infrastrutture socio-sanitarie messe in piedi dal governo camerunense nell’ambito di un’accordo bilaterale con l’Italia sulla cancellazione del debito. “Su 150 milioni di euro cancellati, 50 milioni sono destinato a progetti di sviluppo e di lotta contro la povertà nei settori sanitario, educativo e rurale”, sottolinea l’Ambasciatrice italiana in Camerun, Samuela Isopi, competente anche per il Ciad, la Repubblica centrafricana e la Guinea Equatoriale.
Nei comuni di Gashiga, Garoua, Pitoa, Mindif o Meri, folle di uomini, donne e bambini accolgono nell’entusiasmo generale il convoglio imponente di 4×4 con a bordo ministri e compagine che sbarcano come marziani in luoghi dimenticati da Dio. Tra un comune e l’altro, cambiano gli scenari, ma i problemi sono (quasi) sempre gli stessi: equipaggiamenti sanitari inesistenti o scadenti, mancanza di risorse umane, personale insegnante sottopagato, classi sovraffollate, famiglie reticenti a mandare nelle scuole le proprie figlie.
“Il mio stipendio è in parte pagato dai genitori e arrivare a fine mese è un un’impresa”, sussurra piena di dignità Céline Ndongmo, 39 anni, maestra più per passione che di ruolo. Pochi metri più in là, ll carismatico ministro dell’economia, Louis-Paul Motaze, assorbe come può la valanga di doleanze che gli piombano addosso. “E’ ora di cambiare pagina e lavorare tutti insieme, anche con il supporto di paesi-amici importanti come l’Italia. Faremo di tutto affinché il Nord torni a svilupparsi” è la sua promessa, “perché oltre a Boko Haram che sconfiggeremo, dobbiamo affrontare una battaglia più lunga e impegnativa: la povertà”. I fondi del debito sono solo uno dei primi passi, ma importante.
Profughi vs. rifugiati
Ma anche la miseria sociale ha una sua classifica, in fondo alla quale vegetano i profughi e i rifugiati. Per toccarla con mano bisogna lasciare Maroua e percorrere 80 chilometri per raggiungere Mokolo assieme ai responsabili del Programma alimentare mondiale (PAM) e Claudio Tarchi, coordinatore regionale dell’ong italiana Coopi. Alla sede della prefettura, ci attendono una ventina di profughi. Tra loro c’è Mama Saly, 52 anni, sposato con una donna e dieci figli a carico. Originario dell’arrondissement di Mayo-Moskota, circa 60 km da Mokolo, ha abbandonato il suo villaggio il 26 agosto 2014. “Ero presidente dell’associazione locale. Quel giorno i combattenti di Boko Haram sono venuti a cercarmi nella sede dell’associazione e a casa mia. Per fortuna, stavo in un altro villaggio. Ma sono stato costretto a lasciare tutto perché volevano uccidermi. Ho raggiunto Mokolo a piedi, al termine di un viaggio molto duro e pericoloso”. Da due anni fa, Saly e i suoi familiari sopravvivono grazie agli aiuti alimentari del PAM. “Ma in giro non c’è lavoro, e con i pochi soldi in tasca faccio fatica a pagare le rate scolastiche per i miei figli e soprattutto l’affitto”.
Oltre a Boko Haram che sconfiggeremo, dobbiamo affrontare una battaglia più lunga e impegnativa: la povertà.
Louis-Paul Motaze, ministro dell’Economia.
Contrariamente ai rifugiati nigeriani del campo di Minawao che hanno ricevuto tende dall’UNHCR, l’alloggio per i profughi camerunensi rimane un miraggio. Senza parenti o amici disposti ad accoglierli in casa loro, l’unica alternativa è l’affitto. “E’ il problema più grave per gli sfollati”, sostiene Oumar Hamadou, presidente di un’associazione camerunense che favorisce l’accoglienza e l’integrazione degli sfollati nelle comunità locali. Per Saly, è un dramma. “Due mesi fa siamo stati cacciati dal nostro proprietario, e ci si è messa pure la scuola che ha escluso due dei miei figli per mancati pagamenti”. Le Nazioni Unite promettono di rafforzare gli aiuti agli sfollati, ma nella prefettura di Mokolo il gruppo che incontriamo vorrebbero soluzioni immediate.
Tutti gli occhi sono puntati sul rappresentante di Coopi, in missione di ricognizione per capire i bisogni da colmare nella macchina umanitaria. Ma Tarchi non è un messia e in fondo tutti sanno che un’ong non può soddisfare ogni richiesta. “Gli aiuti agli sfollati sono una grande sfida, forse una delle più importanti in quest’area”. Di sicuro, nessuno di quelli che abbiamo incontrato intende tornare a casa. “I nostri villaggi sono stati in parte distrutti, ci hanno rubato tutto e non ci fidiamo di chi è rimasto nei villaggi, sono complici di Boko Haram”, sostengono in coro.
Al di là degli esiti della guerra contro Boko Haram che il governo camerunense è sicuro di vincere, la ricostruzione del Nord Camerun appare un’impresa titanica. Per chiunque.
Foto di copertina: Soldato della Brigata d'intervento rapido, unità di élite dell'esercito camerunense (J.Massarenti).
Reportage realizzato nell'ambito di un progetto editoriale sostenuto dalla Direzione Generale per la Mondializzazione e le Questioni Globali (DGMO) del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI), che associa Vita e Afronline a 25 media partner africani.
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