Nella coscienza e nella memoria di ogni italiana e ogni italiano quella del 23 maggio 1992 è una data drammatica, che resterà scolpita come testimonianza e monito. Nella strage mafiosa di Capaci vennero uccisi il Giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. L’unico sopravvissuto fu l’agente Giuseppe Costanza. A distanza di ventotto anni il lavoro di contrasto alla Mafia viene portato avanti anche grazie alla testimonianza dei familiari dei martiri di Capaci, che ogni anno organizzano iniziative che coinvolgono soprattutto le scuole. Tina Montinaro, moglie dell’agente Antonio Montinaro, ci racconta l’impegno di quest’anno e cosa significa continuare a lottare contro la Mafia.
“Le iniziative di quest’anno, vista l’emergenza corona virus, non potranno essere come quelle degli altri anni, che vedevano arrivare a Palermo tanti ragazzi da tutte le scuole d’Italia. Eravamo abituati a sorrisi, abbracci, sguardi, ma le circostanze ci hanno imposto un cambiamento. Noi della Quarto Savona Quindici, insieme a WikiMafia e alla Fondazione Falcone abbiamo quindi deciso di attivarci sui social con un’iniziativa avviata il 18 maggio, data del compleanno del dottor Falcone, con un intervento di Nando Della Chiesa. Abbiamo dato vita a incontri e interviste online e siamo riscontrando una grande partecipazione. L’evento conclusivo è oggi, 23 maggio: abbiamo chiesto a tutti gli italiani di mettere un lenzuolo bianco sul balcone o alle finestre, immaginando quelle lenzuola come degli abbracci e quindi più ne vedremo, più ci sentiremo abbracciati”.
Quanto è importante sensibilizzare e rendere consapevoli i giovani, che all’epoca dei fatti non erano ancora nati?
È importante perché devono sapere cosa è successo a Palermo. Nella nostra città c’è stato proprio un attacco allo Stato, ai più grandi uomini dello Stato, come magistrati, un presidente di regione, tantissimi poliziotti, preti. I ragazzi devono sapere che ci sono stati questi due grandi magistrati, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che hanno deciso di lottare contro la Mafia, nonostante fino a quel momento tutti dicevano che la Mafia non esisteva. Hanno dato vita, per la prima volta nella storia, a un maxiprocesso. Quegli uomini hanno offerto la possibilità a tutti quanti noi di rialzare la testa, di dire “no alla mafia”.
Come racconta quel 23 maggio 1992?
Quando ti arrivano certe notizie a casa è sempre drammatico. Io sapevo perfettamente del lavoro di mio marito, sapevo che il periodo storico era complicato, per certi versi tragico. C’erano morti tutti i giorni a Palermo, e io, lo dico per amore della verità, non ho mai chiesto a mio marito di non scortare il giudice Falcone. Io mi sono innamorata di quel ragazzo che aveva fatto quelle scelte di vita, ero orgogliosa di lui. Non ho accettato quello che è successo, perché è inaccettabile, però continuo a essere orgogliosa di quel marito, mentre ci sono persone che si devono vergognare dei mariti che hanno accanto. Il mio manca da 28 anni, ma continuo a farmi chiamare la signora Montinaro; non mi piace sentirmi chiamare vedova, perché vedova indica qualcosa che è finito. È stato un evento tragico, che ha distrutto la mia famiglia. Quella bomba è entrata in casa mia, io e i miei figli ne portiamo i segni addosso. La cosa più grave è che ti aspetti una giustizia che però, dopo 28 anni, non è ancora arrivata. Questo è quello che ti dispiace di più: io ho avuto un marito che ha giurato fedeltà allo Stato e lo ha dimostrato fino alla fine, morendo con una dignità incredibile. Siamo un Paese dove ci sono state tante stragi e ancora non sappiamo la verità di nessuna di queste stragi, siamo un Paese che ha la memoria corta e riesce anche a non far venire fuori certe verità, e questo fa male a tutti, fa male soprattutto alle famiglie delle vittime di Mafia. Quando senti che la maggior parte dei criminali stanno fuori ti senti ferito, perché ti rendi conto che abbiamo dato veramente tanto a questo Stato e ci aspettavamo in cambio una giustizia che non è mai arrivata. Quando sposi un poliziotto tutta la famiglia entra in Polizia e lui la sua dignità ce l’ha lasciata proprio come eredità e noi abbiamo continuato a fare memoria, andiamo ovunque per far sì che anche solo un ragazzo cambi mentalità.
Che uomo era Antonio Montinaro?
Antonio l’ho conosciuto quando aveva 24 anni, era un ragazzo coraggioso e solare che aveva fatto scelte di vita incredibili, decidendo di venire a Palermo per scortare il dottor Falcone. Era un simpaticone, un ragazzo molto allegro, orgoglioso di quello che faceva, e nel poco tempo che stava a casa era l’amicone di tutti. Era un giovane che quando vedeva qualcuno in difficoltà non si tirava indietro. Non navigavamo di certo nell’oro, non prendeva nemmeno l’indennità di rischio e aveva lo stesso stipendio dei colleghi che stavano in ufficio, ciò nonostante si metteva sempre la mano in tasca per aiutare gli altri, e spesso portava quei giovani in difficoltà che incontrava nelle strade a mangiare a casa nostra, per evitare che andassero chissà dove. La nostra casa era sempre piena di ragazzi. Antonio era di una bontà incredibile, ma era consapevole di quello che stava facendo, non è mai stato incosciente. Tutte le mattine, quando entrava in quella macchina, sapeva che forse non sarebbe tornato a casa, però lo faceva, perché il giudice Giovanni Falcone andava protetto.
Antonio Montinaro ha lasciato un’eredità morale importante…
Molto, molto importante. Siamo stati sposati per cinque anni e quando stai al fianco di una persona così e ti rendi conto che c’è uno Stato che non è in grado nemmeno di fare memoria, allora ti devi mettere in gioco tu. Quando si parlava della strage di Capaci si diceva solamente il giudice Giovanni Falcone, la moglie, e gli uomini della scorta, ma la scorta è fatta di uomini e noi siamo la famiglia di uno di quegli uomini, che aveva ancora tanti sogni, che aveva desiderio di crescere i suoi figli. Abbiamo iniziato a raccontarne la memoria, a spiegare l’importanza degli uomini della scorta, del perché certi uomini vanno scortati. Va riconosciuto l’impegno di questi giovani che per proteggere un grande magistrato ad altissimo rischio, hanno messo da parte persino le famiglie. Facevano orari assurdi, li vedevamo pochissimo e a casa avevano bisogno di riposare. Giovanni Falcone era un giudice che lottava contro la Mafia e per questo andava protetto. Va quindi onorata la sua memoria e al contempo va rispettata e onorata la memoria degli uomini che hanno scelto di restargli sempre accanto. Lo hanno difeso e protetto fino alla fine: è proprio la loro macchina che è saltata in aria per prima.
Secondo lei, si è sviluppata una coscienza antimafia anche fuori dalla Sicilia?
Tra i giovani sicuramente sì, perché sono nati in un periodo diverso dal nostro. Abbiamo dato loro una consapevolezza e una libertà che a noi sono costate davvero tanto. Dovremmo, invece, rieducare certi adulti che hanno sempre avuto atteggiamenti ambigui, hanno continuato ad agire nell’illegalità e condurre malaffari. Come diceva Giovanni Falcone, “anche se non sono mafiosi, hanno la mentalità mafiosa”. Questo si sta riscontrando ultimamente non sono a Palermo e in Sicilia, ma anche in moltissime città del Nord, che, mi dispiace dirlo, ancora oggi fanno finta di niente perché non hanno morti ammazzati. Non hanno capito che oggi al mafioso non conviene più uccidere e agisce diversamente. Ai tempi delle stragi si sono dati la zappa sui piedi da soli. Oggi agiscono in modo diverso, nemmeno ti accorgi che sono mafiosi. Noi, ai tempi, l’abbiamo subita la Mafia, oggi con la Mafia in molti fanno affari. Ti faccio un esempio: all’imprenditore palermitano veniva estorto il pizzo. Oggi abbiamo capito che al nord li vanno a cercare i mafiosi, per avere agevolazioni, per curare i propri interessi. No, non hanno sviluppato una coscienza antimafia, emerge qualcosa solo quando si apre qualche inchiesta e si scoprono scandali legati alla concessione di appalti truccati.
Cosa andrebbe fatto per contrastare questi atteggiamenti?
C’è sempre tanto lavoro da fare, bisogna creare consapevolezza, partendo dai ragazzi. I giovani devono essere curiosi, devono studiare, aprire la mente, così da poter capire tante dinamiche, anche se poi abbiamo uno Stato che traballa. Dobbiamo capire da che parte stare. Dobbiamo impegnarci, tutti, perché tutti siamo lo Stato. Troppo comodo aspettare che certe cose le facciano gli altri. Dobbiamo agire insieme, metterci la faccia, tutti ci dobbiamo impegnare se vogliamo che cambi questo sistema, questo modo di essere.
La sua vita è ormai un baluardo della lotta anti Mafia.
Un anno e mezzo fa che il Capo della Polizia ha firmato un protocollo di intesa con il presidente della Regione Sicilia Musumeci, che mi ha voluto in Polizia, per la memoria di tutti i caduti della Polizia di Stato e questo per me è un onore, un privilegio che mi incoraggia a rafforzare il mio impegno nel ricordo. L’impegno delle donne è importante, è importante che scendiamo in campo. Noi donne siamo mamme e ci rendiamo conto che vorremmo dei figli diversi da noi, più liberi e coraggiosi. Anche i figli dei mafiosi sono figli di mamme, e anche loro, nel loro ambiente, considerano importante la figura della donna, ma è certamente una figura diversa dalla nostra. Per noi è inconcepibile che un figlio possa essere mafioso, e siamo noi mamme che dobbiamo far capire a questi ragazzi nelle scuole che magari i loro papà sbagliano. Giro le scuole di tutta l’Italia e con i ragazzi non mi sono mai posta su un piano diverso, mi siedo accanto a loro, cerco di capire se hanno problemi, specialmente se sono qui nella città di Palermo.
Com’era Palermo prima di quella strage?
Palermo era una città dalla grande storia, ma ormai piena di persone indifferenti, che avevano paura, che si giravano dall’altra parte, stavano nascoste dietro le finestre. Da quel 23 maggio del ’92 qualcosa è cambiato per sempre. Ci siamo trovati ai funerali una città piena di persone e non ce lo aspettavamo. Quando tu racconti questo ai giovani che non c’erano all’epoca, a loro sembra una cosa allucinante, incredibile, per questo vanno informati. Va detto loro che i mafiosi sono terribili criminali e che c’è stata una grande lotta anche da parte della società civile. Da quel giorno molte persone hanno trovato il coraggio di denunciare, sono nate tante associazioni. Se oggi tanti ragazzi scendono nelle piazze e gridano “no alla Mafia” lo dobbiamo a quegli uomini che hanno dato la vita per questa causa. Prima nessuno avrebbe fatto una cosa del genere.
Come è cambiata la città?
Oggi abbiamo una città libera dalla paura, la gente si è ribellata. La cosa più importante e più bella è che, finalmente, sono cambiate le coscienze dei palermitani. Oggi Palermo è una città totalmente diversa. Prima del ’92 si contavano i morti ammazzati tutti i giorni, e quando non si contavano era perché venivano sciolti nell’acido o venivano messi nei pilastri e siccome gli assassini appartenevano a famiglie mafiose, per omertà non venivano nemmeno denunciate le loro scomparse. Palermo era una città pesante da vivere. Arrivavi a una certa ora nei quartieri e c’era il coprifuoco, mentre oggi trovi una città libera, che puoi vivere di giorno, come di notte. Lo dobbiamo anche al sacrificio di persone come Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Onore a tutti loro.
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