Amarcord

Stellantis, mio padre e le automobili della mia vita

di Daria Capitani

Nelle settimane in cui il futuro dell’automotive in Italia è a un bivio cruciale, il diario sentimentale di una fabbrica che non esiste più. Una figlia, un padre e i pezzi di vita che si sono avvicendati insieme alle automobili

Sono nata il 22 novembre 1981, un anno e otto giorni dopo la marcia dei 40mila. Non riesco a immaginarmelo un picchetto di trentacinque giornate, i cancelli di Mirafiori inaccessibili e migliaia di impiegati e quadri lungo le vie di Torino a chiedere di poter entrare in fabbrica. Sono nata alla fine di una stagione emblematica di lotta operaia, ma le crisi della Fiat hanno comunque scandito il mio mondo.

In quell’inverno un po’ grigio, la Fiat era in cassa integrazione. Se lo ricorda mia madre, mi racconta che tutti insieme andavamo a prendere a scuola mio fratello. Mio padre, assunto come operaio nel ‘79, spingeva la carrozzina. Non succedeva sempre. A dire il vero non succedeva quasi mai: erano gli anni dei turni, mattino pomeriggio sera. C’è una foto, rossastra come tutte quelle degli Anni Ottanta, in cui mia madre ha i capelli lunghi e i pantaloni a zampa, mio padre ride e mio fratello si mette davanti alla culla, come uno scudo. Sembra dica a qualcuno: vuoi smetterla di guardare soltanto lei?

Una delle foto rossastre della mia infanzia negli Anni Ottanta.

Non sono figlia delle ferie d’agosto. Io sono stata concepita a febbraio. Sono andata a controllare: nel 1981, a inizio anno, due linee di produzione a Mirafiori erano ferme. Figlia, forse, della cassa integrazione. Quel tempo sospeso di lavoro e vuoto insieme, una specie di condanna al riposo. A me quelle due parole non hanno mai fatto paura: significavano più tempo insieme, giornate di condivisione, meno corse dal lavoro per mia madre. Se ci penso oggi, mi sembra impossibile scinderle dai risvolti economici. Eppure, da bambina non ricordo di aver mai associato la frase “la prossima settimana sono in cassa” allo stipendio.

Tra i ricordi più belli, ci sono le feste di Natale. Tutta la famiglia a passeggio tra le grandi presse per lo stampaggio. Non ne ho mai capito realmente il significato, ma quegli stabilimenti che hanno fatto la storia nelle rivendicazioni sull’inquinamento acustico e la sostenibilità dell’ambiente di lavoro fanno indubbiamente parte del mio lessico familiare. Per ogni bambino, c’era un regalo. Il rientro a casa con il camper rosa della Barbie è uno degli ingressi più trionfali della mia vita.

Figlia, forse, della cassa integrazione. A me quelle due parole non hanno mai fatto paura. Oggi mi sembra impossibile scinderle dai risvolti economici

Oggi è Stellantis, ma per me l’automotive in Italia sarà sempre Fiat, la font inconfondibile sul retro della vecchia Panda. Ammetto di sentirmi in colpa ancora oggi a valutare un acquisto fuori dalla casa madre. Quando ho compiuto diciott’anni, erano gli Anni Duemila, ho ricevuto, infiocchettata, una 500 L vintage. I miei amici dopo la patente guidavano. Io ho dovuto imparare a fare la doppietta. Ricordo le liti prima di venderla: lui ne rivendicava il valore storico, io volevo soltanto un’auto che mi riportasse a casa. La verità è che mio padre teneva alle auto nello stesso modo un po’ infantile con cui io mi indigno di fronte a qualcuno che stropiccia un giornale. Non mi sono ancora perdonata l’ammaccatura sulla Punto verde bottiglia alla prima prova di guida con il foglio rosa. Avevo schiacciato l’acceleratore al posto del freno.

Mio padre è andato in pensione relativamente giovane. Una scelta presa in un giorno. Subito era spaesato. Io avevo vent’anni e la notte rientravo tardi. Lui, occhi spalancati alle tre del mattino dopo anni di turno notte fisso, mi assaliva dicendo: “Sei pazza, mi vuoi far morire!”. Quando (anni dopo) è morto sul serio, sono andata io a recuperare la sua auto. Non sapevo dove l’avesse parcheggiata ma sono andata sicura. Ricordo che prima di partire ho aperto il cassetto sotto il cruscotto. C’erano tante cose. Un metro, delle foto, un vecchio portamonete sgualcito e una mia lettera con gli auguri di compleanno, dovevo avere dieci anni. L’ho guidata fino a casa e non ci sono mai più salita.

In carrozzina con mio fratello.

Sulle automobili mio padre non mi ha insegnato niente. Da quando non c’è più, dimentico la revisione e persino il cambio gomme: se ne era sempre occupato lui. Quello che mi ha insegnato ha a che fare con l’etica del lavoro, un certo modo di onorare le giornate e i talenti, e il senso del fare squadra. Con i colleghi aveva una condivisione di intenti e prospettive: diversi per storie e scelte fuori dai cancelli, uniti dentro la fabbrica verso un unico obiettivo.

Io non lo so quante linee ripartiranno in Italia, ma sono certa che per noi, figli di quella Torino operaia, un’automobile non sarà mai soltanto un’automobile.

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