Scene terrificanti riaffiorano nella memoria di Stefan che dopo tre anni ha deciso di raccontare l’inferno che lo ha tenuto prigioniero e da cui ogni giorno fa fatica a liberarsi. L’inferno che ha vissuto due volte in mare quando ha visto morire centinaia di uomini, donne e bambini che viaggiavano insieme a lui e in un centro di detenzione a Tripoli dove è stato rinchiuso tra un naufragio e l’altro anche lì due volte per un mese e mezzo.
Stefan Yanga, 29 anni, del Camerun, che ora vive a Parigi dove ha ottenuto la protezione internazionale vuole che il suo nome e cognome si conoscano per intero perché tutti sappiano quello che avviene nelle stanze delle torture dei campi di detenzione in Libia dove i trafficanti di uomini decidono chi ha il diritto di salire sul barcone e chi no, chi può tentare il viaggio e chi invece deve morire.
La storia di Stefan si intreccia a novembre del 2016 con quella di Mediterranean Hope, il progetto sulle migrazioni della federazione delle chiese evangeliche in Italia. Sbarcato sull’isola di Lampedusa, Stefan insieme a un altro superstite del naufragio incontra Francesco Piobbichi, il disegnatore sociale che racconta le sofferenze dei migranti di cui Vita ha raccontato la storia.
Francesco, operatore di Mediterranean Hope, raccoglie a caldo la storia di Stefan e insieme a Don Mimmo, allora parroco dell’isola, decidono di organizzare una preghiera nella parrocchia di San Gerlando per ricordare le vittime di quel naufragio. In quell’occasione Piobbichi realizza il suo disegno L’ultimo abbraccio dove si vede un bambino scivolare dalle braccia della madre in mezzo al mare.
É il naufragio della notte tra il 2 e il 3 novembre 2016 in cui morirono 129 persone. Stefan è tra i 27 sopravvissuti: «Era buio, sarà stata mezzanotte, avevamo un numero di emergenza italiano da chiamare, ma non arrivava nessuno a soccorrerci. C’erano donne con i propri figli e tanti bambini. Il gommone si è sgonfiato e tutti si sono gettati in acqua, ho visto sette compagni di viaggio che erano partiti come me dal Camerun morire davanti ai miei occhi. L’acqua era gelida e quasi tutti sono annegati. Solo l’indomani, circa 12 ore dopo, una nave bianca si è avvicinata a noi è ha salvato chi dava qualche segno di vita».
Il naufragio del 3 novembre 2016 è il secondo a cui Stefan è sopravvissuto. L’11 ottobre del 2016 era salito a bordo del primo barcone che lo avrebbe dovuto portare in Italia, ma quella notte davanti alle spiagge di Tripoli i trafficanti libici che erano saliti sull’imbarcazione cominciarono a sparare chi provava a ribellarsi. Ci furono 11 morti e i sopravvissuti furono soccorsi dai militari libici – gli stessi che oggi fanno parte della cosiddetta guardia costiera libica – e riportati nuovamente in un campo di detenzione. «Le donne venivano violentate e ho visto tanti ragazzi come me con la testa decapitata, ci trattavano come animali e per poter affrontare di nuovo la traversata sono stato costretto a pagare per la seconda volta. La Libia è l’inferno», racconta Stefan che nel dolore del ricordo è oggi in cerca di un editore per pubblicare la sua storia che è la storia di tanti migranti sopravvissuti al naufragio e ai campi di detenzione libici.
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