Luigi Cancrini

«Sono un uomo di pace e mi rattrista vedere il mondo che insegue i conflitti»

di Luigi Alfonso

Lo psicoterapeuta romano si racconta e parla del suo percorso professionale e dei rapporti con la politica per individuare interventi utili per la collettività. L'ispirazione di Freud e l'importanza della psicoterapia familiare per la soluzione di molti casi

«Mi considero un uomo di pace. Forse perché sono nato poco prima della Seconda guerra mondiale (nel 1938, ndr), dunque ho chiari ricordi dei bombardamenti e di quanto accadde a Roma. Per me, il movimento naturale è sempre stato quello di intervenire per placare i conflitti. E credo che la professione che ho scelto, e in particolare il lavoro di psicoterapeuta della famiglia, sia molto legato a questo».

Luigi Cancrini comincia così la lunga intervista che ha concesso a VITA, per parlare del suo nuovo libro pubblicato da Giunti Editore (“Un lungo viaggio nella cura della mente – Uno psicoterapeuta racconta”) e anche di sé.

Professore, la sua premessa assume un significato importantissimo, soprattutto in questo contesto storico.

«A 84 anni provo una grande tristezza perché il mondo continua a non mostrare una grande voglia di pace. C’è stata dopo la guerra mondiale, poi non più. Stamattina sentivo le tv che parlavano della morte di Henry Kissinger, che per me è stato un personaggio sostanzialmente diabolico. Anticomunista sfegatato e complice di Pinochet, perpetratore di orrendi delitti in tutta l’America latina. Io non lo considero estraneo alla morte di Aldo Moro e al fallimento di un’operazione che intendeva portare l’Italia in un cammino di pace al di là della guerra fredda. Il percorso intrapreso da Moro e Berlinguer è stata la mia grande passione politica, al tempo. Non dico che Kissinger sia il simbolo del male, ma non va neppure ricordato come un grande statista. La coscienza collettiva deve avere la capacità di riflettere sui momenti terribili della storia del Novecento».

Nel suo libro spiega che tutto per lei cominciò quando, appena 17enne, lesse “Casi clinici” di Sigmund Freud. Fu un’illuminazione. In caso contrario, avrebbe studiato filosofia.

«Un libro straordinario che mette in mostra tutta la genialità di quell’uomo. Il primo Freud è ricchissimo di osservazioni semplici. Poi, nel corso della sua vita, ha sempre più sentito il bisogno di difendersi dagli attacchi di chi la pensava in maniera differente. Rileggendolo, la cosa che mi ha colpito di più è la straordinaria riflessione che lui fa quando parla di un paziente denominato “l’uomo dei lupi”. Si accorge che stava male già da prima: a 8 anni aveva già una nevrosi. Se si fosse intervenuti allora, sarebbe stato tutto più semplice. Lì c’è tutto. La terapia familiare è il tentativo di intervenire quando il bambino è piccolo e presenta per la prima volta il suo disturbo. Lo star male del bambino è sempre il riflesso di un cattivo funzionamento di un sistema di persone. Insomma, nel Freud di allora c’è l’anticipazione di tutto quello che si è capito moltissimo tempo dopo».

Lei ha avuto da presto la “cassetta degli attrezzi”. Le è servita nella sua vita, nel ruolo di padre?

«Si è genitore insieme a un’altra persona. La chiave fondamentale della buona educazione di un figlio si basa sul funzionamento armonico della coppia nei suoi confronti. Se uno dei due genitori si muove su una linea di comprensione e pazienza, mentre l’altro ha aspettative di risposte rapide ed è più esigente, nel figlio nasce una grande confusione. Ho vissuto due situazioni matrimoniali: nella prima ero molto giovane e un po’ fragile; una relazione tra due persone che non riuscivano a trovare posizioni armoniche. I figli sono venuti su bene ma la separazione fu un problema. Nel secondo matrimonio c’è stata certamente più armonia e io mi sono messo un po’ di lato: nella parte di interazione con i figli c’è stata di più la madre. Perciò, possiamo essere preparati e colti, ma allevare dei figli riguarda la coppia e non il singolo».

La copertina dell’ultimo libro di Luigi Cancrini

La depressione è stata definita da molti “la malattia del secolo”. Ma lei, nel libro, sostiene che sia stata anche il più grande affare per le case farmaceutiche nel XX secolo.

«Provo un certo fastidio di fronte al termine depressione, che va sempre collegata ai fatti che la determinano. Se ho avuto un lutto, è normale che sia un po’ depresso. Ma se una persona arriva da me con un vissuto depressivo, ci vuole un po’ di tempo per capire che cosa è successo. La depressione non è una malattia: è un sintomo. È come se volessi curare il sudore: esso può essere causato da una grande fatica fisica, a volte dal nervosismo, altre da un’ipoglicemia nel diabetico. Non posso curare il sudore, semmai le cause che lo determinano».

Lei dedica il capitolo 3 all’oceano borderline. Perché lo definisce così?

«Negli anni ’40 esisteva, nel parlare degli psichiatri, la distinzione tra nevrosi e psicosi. In quel periodo si cominciò a parlare degli “stati limite”, per l’appunto border, in cui ci sono le caratteristiche di pazienti che a volte sembrano nevrotici e altre volte psicotici, ma non sono né l’uno, né l’altro. Pian piano ci si è accorti che nell’utenza di un servizio di salute mentale o di un terapeuta, la quantità di pazienti cosiddetti borderline è maggiore di quella che funziona a livello nevrotico o psicotico. L’immagine è quello di un confine, l’Oceano Atlantico, che divide l’Europa dall’America ma è più grande sia dell’Europa che dell’America. È una metafora. Dentro questo oceano c’è tutto un insieme di psicopatologie legate alle tossicodipendenze e a disturbi gravi del comportamento alimentare o della personalità. Pazienti che hanno le loro sofferenze importanti e vanno aiutati».

Nei primi anni ’70 lei ebbe modo di frequentare, a Roma, un seminario tenuto dal grande psichiatra e psicoanalista inglese John Bowlby. E lui illustrò un caso emblematico sulle cure materne e la salute mentale dei bambini.

«Lui raccontò il caso di Patrick, un bambino di tre anni e mezzo che fu trovato per strada a Londra, da solo, durante i bombardamenti. Fu portato in una sorta di asilo psicoanalitico in cui lavoravano Anna Freud e tanti specialisti che poi sono diventati psicoterapeuti e psicoanalisti importanti. Questo bimbo, nei primi giorni, cercò di uscire dalla struttura per andare alla ricerca della madre. Ovviamente gli fu impedito, ma lui ci tentò più volte. Sino a quando si mise in un angolo, con gli occhi fissi nel vuoto. Mostrava alcune stereotipie tipiche dei bambini, cioè movimenti delle mani e delle braccia con cui mimava il mettersi cappotto e il cappellino. Un caso illuminante per capire il trauma e i tentativi di reagire ad esso, che a un certo punto diventa simbolico. Per Patrick, il simbolismo era molto simile a quello di bambini autistici, ma era generato da un profondo dispiacere. Anni dopo, da un’autobiografia di Anna Freud, venni a sapere che il bambino aveva ritrovato la madre dopo alcuni mesi e si era poi ripreso. E il ruolo della mamma era stato fondamentale, più di tante terapie».

Luigi Cancrini e Franco Basaglia nel 1976 ad Arezzo

Le psicosi, cioè i disturbi psichiatrici più gravi, a volte si rivelano quasi impossibili da risolvere. A lei è capitato in tre occasioni.

«Sì. Due di questi casi, a distanza di 25-30 anni, li seguo ancora. Del terzo ho perso le tracce. Sono situazioni in cui c’è stata una drammatica cronicizzazione della sintomatologia, in cui tutti i tentativi – anche con la terapia familiare – non hanno dato esito. A volte non si recupera un livello sufficiente di intesa empatica con la persona. Ovviamente, questo va detto, può essere determinato dall’incapacità o a errori del terapeuta».

Sino a 50 anni fa circa, alla psichiatria non veniva data grande importanza: veniva vista da molti come una costola della neurologia. Che cosa ha cambiato le carte in tavola?

«In Italia, la distinzione tra studi psichiatrici e studi neurologici venne fatta nelle università, anche sulla base di accordi con gli altri Paesi europei. Gli ospedali psichiatrici prima venivano amministrati dalle Province insieme agli asili per i bambini poveri o abbandonati, poi sono passati al Sistema sanitario nazionale. Da allora, la psichiatria fa parte ufficialmente delle attività mediche e non di quelle socioassistenziali. Un risveglio culturale ha fatto immaginare che anche i pazienti psichiatrici sono essere umani che possono essere aiutati e ascoltati. Franco Basaglia ha dato un grandissimo contributo in questa direzione. Poi sono arrivati i farmaci neurolettici, in grado di trattare le crisi psicotiche in maniera efficace e rapida, e il quadro è cambiato ancora. Ma se da un lato sono cresciute la cultura psicoterapeutica e l’esigenza di una cultura umanistica e sociale, dall’altra la gran parte della psichiatria medica si è concentrata sull’uso dei farmaci, mettendo in secondo piano le occasioni offerte dal lavoro psicoterapeutico e il senso profondo di umanità collegato all’approccio di cui ho parlato. È molto triste, questa deriva».

Lavorare coinvolgendo le famiglie dei suoi pazienti dà risultati molto più concreti. È sempre così?

«No. Bisogna riflettere sulle cause del ciclo di vita delle persone. Se a presentare dei sintomi importanti è un bambino o un adolescente, lavorare con la famiglia ha un senso. Facciamo il caso di un giovane adulto che è uscito dalla sua famiglia; studia o lavora, e mostra delle difficoltà con l’altro sesso o nel rapporto con se stesso. Bene, chiamare in causa la sua famiglia può non essere utile per niente. Se invece una persona di 30 anni mette al mondo un figlio e si sente in difficoltà o comunque inadeguato a quel ruolo, risulta importante lavorare sulla coppia. Ovviamente è un discorso molto semplificato».

Nel suo libro non nasconde il fitto impegno politico con il Pci di Enrico Berlinguer. Un tempo che lei definisce “molto bello e ricco”. E quando Achille Occhetto istituì il Governo ombra, le fu assegnato l’incarico di occuparsi del problema delle tossicodipendenze. Era il 1989.

«Chi fa ricerca scientifica, che nel caso della psichiatria è basata sull’incontro con persone in difficoltà, quando si capisce una cosa importante e utile deve essere resa alla portata del maggior numero possibile di persone. A cavallo tra gli anni ’60 e ’70, lavorai molto sulle cosiddette classi differenziali e speciali. Ci rendemmo conto delle storture: i figli dei poveri, ma anche degli immigrati, venivano inviati in quelle classi anche senza un motivo particolare. Alcune delle situazioni più difficili le abbiamo risolte con la terapia familiare. Il rapporto con la politica diventa, perciò, naturale e obbligato. Una parte degli psicanalisti italiani aveva accettato la modalità di lavorare nel proprio studio, con pochi pazienti e molti soldi, slegati dal contesto sociale. Tanti altri specialisti invece non ne hanno voluto sapere. Una battaglia del 1975 ci permise di trasformare il rapporto con le tossicodipendenze da giudiziario a terapeutico, attraverso una legge tanto voluta dal Pci e sponsorizzata dalla Dc e una parte importante della Chiesa italiana. L’articolo 1 stabiliva il diritto alle cure per tutti. Tra le mie amicizie più care di quel tempo figurano Don Luigi Ciotti, don Pierino Gelmini e don Mario Picchi».

Successivamente arrivò la chiamata di Leoluca Orlando per il progetto “W Palermo viva”. Lei disse al sindaco: se si vuole fare un programma di prevenzione rispetto all’uso di droghe, è necessario lavorare sulle condizioni di crescita, ossia su infanzia e adolescenza. Si torna sempre lì.

«Scrissi un progetto che prevedeva un rovesciamento culturale per fare prevenzione sulle tossicodipendenze, per esempio riportando a scuola i bambini che non ci andavano, oppure lavorando con i minori autori di reato o con bambini maltrattati. Un’esperienza straordinaria, che però ha avuto poca risonanza: un peccato, perché era replicabile in tutta l’Italia. L’idea era quella di un piccolo esercito di psicologi e assistenti sociali al fianco delle famiglie, che potevano prevenire situazioni come quella recente di Caivano».

Lei presenta alcune proposte in merito alla prevenzione dei disturbi psichici, mentre in appendice parla della proposta di legge per la tutela mentale e la prevenzione dei disturbi psichiatrici gravi. Può riassumerle in breve?

«L’origine di una psicosi è collegata agli ultimi mesi della gravidanza e al primo anno e mezzo di vita. Quindi è importante l’assistenza psicologica, psicoterapeutica e sociale alle madri in difficoltà. È fondamentale intervenire nel periodo a cavallo del parto, in quei casi. Poi ci sono le tematiche che riguardano l’origine dei disturbi borderline, per i quali è necessario intervenire efficacemente con la messa in protezione del bambino e il sostegno psicoterapeutico suo e della famiglia, in tutte le situazioni di maltrattamento: psicologico, fisico e di violenza sessuale. L’arco di vita tra i 2-3 anni sino ai 13-14 va protetto in modo specifico, da questo punto di vista, prevedendo servizi in cui si può offrire la psicoterapia. Che va assicurata anche a tutti i bambini ospiti delle comunità, i quali hanno subìto dei traumi: vanno anche curati, non solo protetti»

L’ultimo capitolo del suo libro entra nel vivo dell’attualità che stiamo vivendo: gli effetti della pandemia, l’isolamento adolescenziale e il mondo virtuale, le bande giovanili, la famiglia, gli affidi. Argomenti che meriterebbero un libro ciascuno, e pure corposo.

«E anche con tante voci. La cultura psicoterapeutica, come ho detto, è una cultura di pace. Può alleviare i conflitti tra le persone e dentro le persone, ma anche aiutarle a crescere autenticamente pacifiche e democratiche. Questo è il grande contributo sociale che può dare la mia categoria professionale».

Professore, come mai ha fatto scrivere la premessa del libro a Marco Bellocchio, noto regista e produttore cinematografico, e non a un luminare del suo settore?

«Non conosco luminari, solo persone che come me hanno fatto un percorso. Detto ciò, avevo collaborato con Bellocchio ad una sua pellicola, “Marx può aspettare”, in cui lui cercava di ricostruire le vicende relative al suicidio del fratello. Fu un’interazione molto interessante. Lui è una persona che ha un interesse profondo, umano e culturale per la psicoterapia. E credo che la psicoterapia abbia bisogno di testimoni come lui».

Credits: foto Anthony Tran su Unsplash

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