«Quando ho chiesto “Qual è la differenza tra quello che viviamo oggi e i tempi di Gheddafi?”. La risposta è stata: “Con lui la vita qui non aveva odore. Oggi la vita puzza”». La giornalista e scrittrice Francesca Mannocchi pensa a questa frase quando le si chiede di raccontare che cos’è la Libia, che cos’è oggi la Libia.
Ha da poco pubblicato per Einaudi Stile Libero il libro “Io Khaled Vendo Uomini e Sono Innocente”, un viaggio dentro la vita di un trafficante di uomini. Perché quello dell’immigrazione è un fenomeno a più sfumature. Un libro bellissimo (leggetelo), onesto. Che travalica le polarizzazioni e allarga lo sguardo.
«Khaled è un colpevole, più che un carnefice», racconta l’autrice. «Si macchia di crimini orrendi e lo sa. Ma, tuttavia, è come se in qualche modo ci stesse dicendo: “io non sono il vostro nemico ma il vostro specchio. Lo specchio delle vostre scelte, delle vostre azioni. Sono lo specchio del ricatto con cui l’Europa sostiene se stessa in nome di una presunta sicurezza”».
Com’è nato “Io Khaled Vendo Uomini e Sono Innocente”?
Mi ricordo di una telefonata con Paolo Repetti (Einaudi stile Libero ndr) durante la crisi della Diciotti. Ci siamo chiesti insieme quale fosse il modo più efficace per raccontare quello che stava succedendo dall’altra parte del mare. Abbiamo pensato che la risposta giusta in quel momento fosse una sfida: per me come scrittrice ma anche per il lettore che oggi è abituato a polarizzare le opinioni. I trafficanti di uomini sono dei torturatori che vanno eliminati. I migranti sono dei disgraziati che per qualcuno vanno accolti e per altri respinti.
Queste polarizzazioni hanno sicuramente elementi di verità. È vero che i trafficanti sono delinquenti, è vero che i migranti chiedono accoglienza. Ma è altrettanto vero che questo fenomeno ha molte più sfumature. La sfida che con Einaudi abbiamo intrapreso è stata quella di raccontare il fenomeno dagli occhi del cattivo. Perché solo così potevamo uscire dalla modalità emergenziale del traffico del singolo gommone, della Diciotti – come tante altre Diciotti – e aprire lo sguardo: Cosa succede in Libia? Perché le persone diventano trafficanti di uomini? E forse, più del giornalismo, è la letteratura che può essere in grado di rispondere a queste domande.
Perché?
Questo libro è una creatura recente. Ma mi piace dire – e pensare – che sia dentro di me da tanti anni. L’ho scritto in tre mesi, ma è come se la scrittura avesse riconciliato e messo a punto il mio lavoro fatto nel corso di tanti anni. Ho potuto raccontare, soprattutto su L’espresso, molte cose che ho visto in Libia. Ma il giornalismo, per mancanza di spazi oggettivi, non lasica modo a tutte le sfumature di emergere. In questo libro ci sono gli anni di appunti presi sui taccuini. La scrittura è stata violenta. È stato un libro che si è scritto da solo, ma si è scritto da solo perché davvero credo che fosse tutto pronto e ordinato dentro di me.
Si può essere trafficanti, carnefici, e vittime?
In generale preferisco non usare né l’una, né l’altra parola, proprio perché l’obiettivo è quello di allargare lo sguardo. Khaled è un colpevole, più che un carnefice. Si macchia di crimini orrendi e lo sa. Ma, tuttavia, è come se in qualche modo ci stesse dicendo: “io non sono il vostro nemico ma il vostro specchio. Lo specchio delle vostre scelte, delle vostre azioni. Sono lo specchio del ricatto con cui l’Europa sostiene se stessa in nome di una presunta sicurezza”.
Cosa non vediamo della Libia?
Dal punto di vista giornalistico mi viene da dire che i luoghi si capiscono vivendoli a lungo. Credo che in Italia manchi la determinazione a passare tanto tempo in un posto. Ho fatto decine e decide di viaggi, spesso lunghi, in Libia in questi anni. Mi ricordo il primo viaggio, più breve, e oggi mi viene da criticarmi a pensare a come sono stata ingenua. Sentivo tutta la presunzione del racconto. Poi la presunzione ti passa, la sorpassa la verità. All’inizio credi di avere le idee chiare. E poi realizzi che tutto quello che credevi di sapere non lo sai. Credo che l’unica regola valida, la prima, sia “lasciarsi smentire dalla realtà”. Quello che sulla Libia letteratura, giornalismo e politica non vogliono vedere è l’unione delle cose: bisogna unire tutti i punti. La vita economica della Libia non è un fatto slegato dal traffico di essere umani, che non è slegato, a sua volta, dal traffico di carburante. 42 anni di dittatura di Gheddafi sono un fattore determinante da un punto di vista storico e sociologico. Noi raccontiamo le cose come se i fenomeni fossero sconnessi. Le cose sono tutte legate in maniera intrinseca e raccontarle singolarmente, senza visione d’insieme, ne rende solo più complessa la comprensione.
Quello che tutti vogliono da noi è l’oro nero. Continuiamo a scavare nel deserto, a estrarre petrolio per inviarlo al miglior offerente, ma stiamo ancora morendo di fame. Chi può biasimarci se spediamo i gommoni carichi di negri dall’altra parte? Continueremo a ricattare via mare il mare, a sua volta, ci ricatterà.
Allora chi è Khaled che vive in Libia?
Un ragazzo che ha vissuto per 20anni la dittatura di un regime sanguinario che uccideva li oppositori impiccandoli in piazza e diretta tv. Tutto questo si trasforma in un’eredità potentissima nell’animo di chi ha quel tipo di vissuto: non valutare il fattore biografico è un grande errore.
Il capitolo “come va giù una cosa che muore” racconta prima della donna siriana che sta affogando e cerca di salvare il figlio e poi di quella stessa donna che morta perseguita Khaled durante la notte. “Smettila di torturami il sonno. Crudele di una siriana. Non ne posso più di sentirti gridare “Aiuto, aiuto”. Sono tre anni che gridi aiuto. Sono stanco della tua voce che mi perseguita. Lo sapevi che in mare si può morire. Lo sanno tutti che in mare si può morire (..) Siete morti in tanti, non mi pento. Ho fatto quello che dovevo fare. Hai dimenticato come imploravate di partire? Non ti ho ucciso io. Non sei morta per colpa mia”. Il senso di colpa ci riporta alle contraddizioni dell’umano?
Quel capitolo è il racconto di un ragazzo tormentato per le scelte che ha compiuto. Ci tengo a dirlo – e capisco che questo mi espone a critiche – io non sono indulgente, ma attraverso la voce di Khaled ho restituito racconti che ho ascoltato, che sono sì pieni di contraddizioni. Com’è contradditorio incontrare un migrante che mi dice di essere riconoscente al trafficante che l’ha messo sul barcone per far in modo che raggiungesse l’altra parte del mare. Tutte queste sono contraddizioni urticanti, fastidiose, ma vere. C’è un altro episodio che racconto, è il momento in cui una donna sta per essere stuprata e suo marito mi dice di come si è legata i capelli per sembrare meno bella. Quello è un particolare che non avrei potuto inventare. E solo una persona che vive una tale paura, umiliazione e dolore, ti può raccontare un particolare così. E lo stesso vale per la vergogna dei trafficanti. Ne ho incontrato alcuni che parlavano degli altri uomini come merce, ed altri come il vero Khaled che mi hanno detto “organizzo questo barcone. Mi compro due case e smetto”. Lo giustifico? Assolutamente no. Ma da scrittrice e giornalista questa cosa mi fa chiedere “cosa mi sono persa?”, “cosa non ho capito?”.
Tutti cercano di muoversi verso la luce, nonno. Io no. Io resto qui, sul limite, sul confine. Sulla linea da oltrepassare. Rimango sul limite. Chi vuole attraversarlo verrà da me, che il prezzo lo pago restando.
“La vita senza odore” è il titolo dell’ultimo capitolo. Perché “senza odore”?
Quel capitolo parte da una frase che ho ascoltato a Tripoli che per me racconta la Libia più di ogni altra cosa. Un giorno, quando ho capito che la figura di Gheddafi era un elemento narrativo trascurato ma fondamentale, ho chiesto ad una persona “Qual è la differenza tra quello che viviamo oggi e i tempi di Gheddafi?”. La risposta è stata: “Con lui la vita qui non aveva odore. Oggi la vita puzza”. Questa è la spiegazione perfetta di quanto un Paese sia stato narcotizzato dalla dittatura e ne paghi tutte le conseguenze, il dolore. La corruzione.
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